L’insediamento del governo di Destra ha aperto la strada alla rivisitazione della questione meridionale, rilanciando le tesi leghiste per le quali il Sud avrebbe bisogno di minori trasferimenti pubblici ed eventualmente di un ritorno alle cosiddette gabbie salariali, ovvero a salari fissati per legge e un valore più basso nelle regioni del Sud.
Le esternazioni, poi ritirate, del Ministro Valditara rappresentano un sentire comune in quell’area politica, così come gli studi del gruppo di economisti della Voce. Info che, anche di recente, hanno di nuovo proposto l’allineamento dei salari dei lavoratori meridionali (considerati troppo alti) alla più bassa produttività del lavoro nel Mezzogiorno.
Indagini autorevoli e recenti segnalano, però, che i differenziali salariali fra Nord e Sud del Paese già esistono e sono di dimensioni rilevanti. Fra queste, quella dell’Osservatorio Job Pricing che elabora un Geography index, dal quale risulta un differenziale retributivo a danno del Mezzogiorno nell’ordine del 17%. Si raggiunge addirittura la percentuale del 52% su base provinciale nella differenza fra Milano (l’area nella quale i salari sono più alti) a Ragusa (nella quale sono i più bassi). A confermare questo scenario interviene un recente Report della Banca d’Italia, stando al quale al Sud persiste una differenza del 9% in media, imputabile soprattutto al fatto che, di rado, vi è contrattazione integrativa in azienda. In ogni caso, c’è del vero nel fatto che la produttività del lavoro è inferiore al Sud e che, per molti beni (a partire dalle abitazioni), i prezzi sono più bassi nel Mezzogiorno.
Vi sono, però, due ulteriori variabili da considerare: 1) La quantità di servizi pubblici. Nel Mezzogiorno, il capitale pubblico (sanità, istruzione, trasporti) è di gran lunga inferiore, in termini quantitativi, rispetto al Centro-Nord. È vero che si paga meno una pizza al ristorante, ma è anche vero che questo risparmio viene, di norma, più che compensato dalla necessità di utilizzare la propria auto per portare i figli a scuola il giorno dopo, nell’assenza di un sistema di trasporti pubblici che lo consenta a costo irrisorio. 2) La qualità dei servizi pubblici e i c.d. diritti di cittadinanza. Quando, poi, i servizi pubblici esistono, la loro qualità è decisamente scadente. Si pensi ai trasporti ferroviari e alla dotazione vetusta di treni in percorrenza a sud di Roma. Tutto ciò ha un costo, che contribuisce a decurtare ulteriormente il salario reale medio nel Mezzogiorno.
La motivazione teorica principale per la quale si richiede la differenziazione dei salari risiede nella convinzione che salari eccessivamente elevati riducano i margini di profitto e, per conseguenza, gli investimenti privati e la crescita. Questa impostazione, tuttavia, si scontra con un’obiezione rilevante e dirimente, ovvero con la constatazione per la quale alti salari implicano alti consumi e alti consumi comportano un livello elevato di domanda interna, di occupazione e di produzione. In più - ed è questo un effetto importante su scala interregionale - un’elevata domanda di beni di consumo stimola le importazioni e, per un’area, come il Mezzogiorno, con poche produzioni locali, questo comporta un arricchimento delle regioni dalle quali proviene il più intenso flusso di merci. In altri termini, le gabbie salariali danneggiano anche il Nord.
Questo meccanismo è all’opera e regge il patto implicito che ancora tiene unito l’Italia. I moltiplicatori fiscali interregionali, ovvero i coefficienti che indicano quanti euro il Paese nel suo complesso guadagna dal trasferimento di un euro al Sud, sono significativamente elevati, testimoniando il fatto che, nonostante la crescente precarizzazione del lavoro, le migrazioni, la denatalità, il Sud costituisce ancora un importante mercato di sbocco per le produzioni del Nord.