Secondo Pier Paolo Pasolini vivere a Taranto nel 1959 «era come – scrisse nel reportage pubblicato in tre puntate, da luglio a settembre, sul mensile Successo – vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta». Oggi, anche se le ostriche sono tornate a crescere in riva alla città dei due mari rinverdendo i fasti del passato, la sensazione che si ha è quella di vivere dentro un grande cantiere: ambientale, politico, sociale, industriale, culturale e finanche giornalistico, alla ricerca di un nuovo punto di ripartenza. Dopo il secolo dell’industria di Stato (prima l’Arsenale militare, poi l’acciaieria e la raffineria), Taranto deve camminare con le sue gambe, consapevole che però da sola non potrà farcela e che però al contrario «Se ce la farà Taranto – come i tarantini sentono ripetere spesso – ce la farà tutta l’Italia». Non si tratta di parole roboanti ma della constatazione dell’enormità di una sfida che non può essere declinata in un angusto perimetro cittadino.
Nell’enciclica «Fratelli Tutti» dell’ottobre 2020, Papa Francesco sottolinea la necessità di trovare un nuovo equilibrio nei rapporti economici, fondato sul concetto di «amicizia sociale» e ispirato dal Cantico delle Creature di San Francesco. Un’espressione che indica un’economia attenta alla natura, all’impatto dell’attività dell’uomo sulle risorse della Terra, alle esigenze e necessità sociali e a come tutto ciò viene gestito. Nel mondo della finanza, questi concetti sono stati racchiusi nell’acronimo ESG (Environmental, Social e Governance), cioè investimenti rispettosi dell’ambiente, delle relazioni sociali e della governance. In «Laudato si’», invece, il Santo Padre propone l’idea di «ecologia integrale», ribadendo l’interdipendenza del mondo globalizza- to e la conseguente connessione tra le dinamiche che acuiscono i problemi della povertà e quelle che distruggono l’ambiente.
In questo contesto, secondo il Papa, la finanza dovrebbe tornare alla sua vocazione originaria, ovvero servire il bene comune. La transizione ecologica che vedrà Taranto protagonista non potrà che iniziare dall’Ilva, lo stabilimento siderurgico sottoposto a sequestro nel luglio del 2012 in quanto sospettato di essere fonte di malattie e morte per chi ci lavora e chi abita nelle vicinanze, ma mai fermatosi per un solo giorno. C’è stato un processo in corte d’assise, ci sono state condanne molto pesanti, il 2023 sarà l’anno dell’appello, ma non è dalla magistratura che potranno arrivare risposte chiarificatrici sul futuro della fabbrica. Fabbrica che nel frattempo continua a divorare centinaia di milioni di euro pubblici, tiene in scacco i suoi 10mila dipendenti costretti ad una cassa integrazione perenne che taglia stipendi e comprime stili e aspirazioni di vita, mette alla prova le ditte dell’indotto costrette a finanziare di fatto l’attività del siderurgico stante le forniture sistematicamente non pagate, assiste disorientata all’altalena dei costi dell’energia che rende economicamente arduo il passaggio ai forni elettrici e dunque l’avvio della decarbonizzazione, ipoteca il futuro di una città che pur reclutando urbanisti di fama per disegnare il suo domani e mentre ospita il comitato organizzatore dei Giochi del Mediterraneo del 2026 non sa ancora se - e magari nemmeno più se lo chiede, con un processo di rimozione pubblica che potrà essere efficace dal punto di vista comunicativo ma che in sostanza appare simile al gesto di chi nasconde la polvere sotto il tappeto - quanto sul suo skyline (e sul suo stato di salute e sui suoi conti) peserà l’acciaio, in termini visivi e non solo.
D’altronde proprio l’acciaio è stato per Taranto anche una formidabile arma di distrazione di massa perché invocando un intervento risolutore dello Stato sull’ex Ilva, allo stesso Stato non è stato chiesto di far arrivare l’autostrada fino a Taranto (si ferma 20 chilometri prima), di garantire collegamenti ferroviari a una velocità decente con il resto d’Italia, uno sviluppo portuale non più solo ex Ilva-dipendente, una università autonoma e tanto altro ancora. Sono stati in tanti a dire nel passato più o meno recente che se riparte Taranto, riparte l’Italia. Alle parole, però, sono seguiti pochi atti concreti e spesso in contraddizione tra di loro, molte volte inspiegabili ai tarantini e ai pugliesi che rispetto alla lunga serie di decreti salva-Ilva varati dal 2013 a poche settimane fa, ancora attendono un decreto salva-Taranto. Un racconto complicato che ha visto, vede e vedrà la «Gazzetta» in prima fila, con le sue idee, i suoi cronisti, le sue competenze, le sue conoscenze di fatti, personaggi e ormai anche impianti perché per narrare Taranto e il suo acciaio, bisogna anche sapersi districare tra cokerie e laminatoi.