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L’astensione ha bocciato gli «staterelli» regionali, ora si alzi la voce del Sud

 
Enzo Lavarra

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Enzo Lavarra

Elezioni amministrative

Non si registra alcun precedente di voto politico o amministrativo nel quale il 60 per certo degli elettori non va a votare

Giovedì 16 Febbraio 2023, 15:44

Le elezioni in due fra le Regioni più importanti del Paese le ha vinte la destra. In Lombardia si conferma Fontana, nonostante la debacle della gestione Covid. Nel Lazio il centrosinistra cede il governo regionale alla destra dopo un decennio. Il Governo Meloni ne esce rafforzato. Come si usava dire una volta, Pd, Conte e il terzo Polo «sono chiamati a riflettere».

Specialmente Conte e il Pd. Il primo si è comportato come un giocatore d’azzardo. Ha puntato al primato nell’opposizione e non ci è riuscito. Il secondo ha reagito ad una disfatta storica della sinistra, disfatta non sconfitta, buttando via 5 mesi. Manca poco alle primarie, ed è da verificare se aver sostanzialmente rinunciato ad un processo costituente di un nuovo soggetto politico di sinistra sia stata scelta adeguata a risalire la china.

Come nel suo stile a destra esulta anche Salvini e lo fa dichiarando che il voto accelera l’Autonomia differenziata. Non fa i conti con la realtà dell’astensione record. Non si registra alcun precedente di voto politico o amministrativo nel quale il 60 per certo degli elettori non va a votare. Il voto alla Lega, apparentemente di lieve tenuta, non gli riconsegna affatto il rango di partito del Nord. È poco più di 1 elettore su 10 degli aventi diritto che vota Lega. Ma veniamo al non voto; riguarda tutto il sistema politico. Per una così alta astensione giocano diversi fattori: di sfiducia generalizzata nella politica, di distacco delle fasce deboli dalla sinistra innanzitutto. Lazio docet. Accanto a questo è riconoscibile un disincanto sulla stessa istituzione regionale come livello di governo, percepito anch’esso distante dalle condizioni di vita delle popolazioni. Il che obbliga a ben altro che alla Autonomia differenziata. Da qui trova fondamento più solido il contrasto con un disegno di legge che porterà ad esiti molto gravi. Intanto perché scardina l’ordinamento istituzionale, circoscrivendo il negoziato all’accordo Stato-Regioni.

Come se vi fosse equiparazione di sovranità fra lo Stato e gli «Staterelli» regionali. Il testo approvato dal Consiglio dei Ministri infatti attribuendo al Parlamento solo un generico potere di indirizzo o parere, secondo la opinione di illustri costituzionalisti (Villone, Mazzarella) stravolge di fatto promesse costituzionali di uguaglianza e indivisibilità della Repubblica (art.2 e 3; art.5).

Accanto a questo l’Autonomia differenziata va respinta per una considerazione di merito che riguarda il vincolo della invarianza dei saldi della finanza pubblica, fissato come invalicabile nel DdL e richiamato su queste colonne da Gaetano Quagliarello. Dal vincolo deriva che, essendo la quota dei trasferimenti dello Stato alle Regioni dettata dalla crescita del Pil nazionale, le Regioni che hanno come base imponibile un gettito Irpef superiore alla crescita del Pil nazionale tratterrebbero più risorse per materie come scuola, sanità, trasporti, energia; fino alle 23 materie da trasferire previste dalle intese preliminari formalizzate dal Governo Gentiloni con Zaia, Fontana e Bonaccini.

Per converso le Regioni a minore crescita (anche per i divari strutturali in termini di infrastrutture e servizi) riceverebbero minori risorse rispetto alle Regioni «differenziate» più dinamiche. Si calcola che per finanziare i cosiddetti Lep (Livelli essenziali di prestazione) occorrono fra 70 e 100 miliardi di euro (dove li trova il governo? E per «essenziale» si intende minimale - cioè livelli lontani dagli standard di qualità della vita che devono essere uguali per tutti?). Dopo ricerche, studi, analisi di élite intellettuali come Viesti, Bianchi, Patruno e altri va maturando crescente consapevolezza che, nel contesto della grave crisi economica e sociale del combinato pandemia/guerra in Ucraina, una Italia a doppia velocità significa metter a rischio il Paese come nazione.

E proprio da importanti momenti pubblici sia dalla Università di Bari sia dalla recente assemblea della Cgil Pugliese, assieme alle diverse espressioni della cittadinanza attiva e a diversi sindaci, si è disegnato un percorso per coinvolgere la più ampia società regionale nelle sue pieghe fondamentali.

Ed è proprio da questa grande alleanza sociale e istituzionale che deve derivare una riflessione e una iniziava su alcune criticità che nascono prima del disegno Calderoli. E che riguardano l’assetto istituzionale complessivo sedimentatosi negli anni con sovrapposizioni e incongruenze nel governo dei territori. Dalla riforma del titolo V della Costituzione alla «abolizione» delle Province. Della ipotesi Calderoli si teme la rottura dei vincoli unitari (dove è qui il partito della Patria di Fratelli d’Italia?) e la spinta neocentralizzatrice delle regioni a danno dei Comuni. Mentre questi già ora hanno difficoltà strutturali a utilizzare per esempio l’opportunità unica del Pnrr.

Per questo il Focus di un movimento riformatore deve muovere contemporaneamente nel contrasto alla autonomia differenziata e in un disegno di riforma. Per aggiornare le funzioni di governo del territorio e mettere al centro il tassello nevralgico del governo di area vasta. Semplicemente per corrispondere a processi reali. Uno fra tutti il rapporto fra città, centri urbani dove si concentrano sapere, ricerca, innovazione digitale e i territori. Infatti una volta si diceva fra città e contado. Già da epoca longobarda con il guastaldo o con le Diocesi, vi era idea di governo oltre le mura. Nel contemporaneo, solo per fare due esempi, disseminati attorno alle città, fra l’una e l’altra, vi sono beni culturali e connessioni ecologiche attrattive della fruizione dei cittadini ma non governati come sistema integrato; ancora, si sperimentano dal basso - con le cosiddette comunità energetiche - produzione e distribuzione di energia rinnovabile a scala sovracomunale. Ma a questi e altri processi che sono il futuro in atto manca l’abito istituzionale di governo adeguato. Che non può più essere il singolo comune o la Regione. Dalla Puglia può partire un contributo per un disegno di riforma dell’intero sistema delle autonomie. Con il sindaco della Città metropolitana che è anche presidente nazionale Anci, e con sindache e sindaci che governano il sistema di grandi e medie città della nostra Regione. Anche in questo modo si parte dalle potenzialità del Sud per parlare a tutto il Paese.

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