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Ratzinger, il Papa «paolino» che ha retto la chiesa con i guanti di velluto

 
Leo Lestingi

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Leo Lestingi

Ratzinger, il papa «paolino» che ha retto la chiesa con i guanti di velluto

Non è facile tentare una valutazione complessiva dell’esperienza e della personalità del papa emerito Benedetto XVI, e della sua impressionante biografia.

Lunedì 02 Gennaio 2023, 15:22

Non è facile tentare una valutazione complessiva dell’esperienza e della personalità del papa emerito Benedetto XVI, e della sua impressionante biografia.

Cominciamo col dire che il papa è il successore di Pietro: questo è il titolo ufficiale; al suo ingresso nella basilica vaticana si canta «Tu es Petrus». Come vescovo di Roma, però, detiene anche la successione di Paolo; e Pietro e Paolo formano una unità. Il primo è colui che con le chiavi ha la potestà ecclesiale di sciogliere e legare, di esercitare il diritto e il potere; Paolo è, invece, colui che con il libro e la spada simboleggia l’autorevolezza della Parola, la critica e l’intelletto, la verità del Vangelo e la libertà della fede, la mistica dell’amore di Dio e il sacramento di salvezza.

Diversamente dai suoi tre predecessori, papa Ratzinger non ha preso il nome dall’apostolo delle genti: ha, però, - ed è questo un primo punto di valutazione - esercitato il suo ministero con un’impronta paolina più spiccata di quanto non sia stata la loro.

È emblematico, ad esempio, che nel 2008 abbia indetto un «anno paolino» (chi lo ricorda?), ma più importante è, però, quello che potremmo definire lo stile paolino del suo pur breve pontificato. L’intuizione di fondo di Paolo è quella di guidare grazie all’insegnamento; ed è l’orientamento di fondo che Benedetto XVI ha fatto proprio.

Non ha sbattuto il pugno sul tavolo, ma ha retto la Chiesa con i guanti di velluto; non ha mai del tutto dismesso le vesti di colui che insegna e ci ha tenuto a sottolineare che il vescovo è soprattutto un maestro.

Un altro carattere del suo pontificato (ma direi di tutta la sua vicenda umana, culturale e teologica) è che è difficile trovare fra i suoi predecessori uno che abbia tanto amato le Scritture come l’ha fatto lui. Solo pochi fra loro hanno raggiunto il livello, sempre elevato, della sua predicazione; non vi è nessuno che, durante il suo pontificato, abbia scritti libri di teologia, tanto meno su Gesù di Nazareth: la sua idea, insomma, è stata quella di guidare la Chiesa grazie all’annuncio e alla catechesi, all’esegesi e alla riflessione. Il suo, dunque, è stato proprio un approccio paolino.

Certo, questo tentativo non è stato sempre coronato dal successo, così come non lo fu nel caso di Paolo. Ad esempio, Benedetto XVI sopravvalutò l’integrità e l’intelligenza della Fraternità sacerdotale «San Pio X»; ha chiesto ai media più di quanto potessero dare: recepire, ad esempio, il testo di un suo intervento senza rilevarne subito la difficoltà, invece di ascoltarlo per intero e afferrarne il senso. Ciò è accaduto nel caso del discorso all’Università di Regensburg (2006), allorché trattò del rapporto tra fede e ragione, tra religione e violenza.

Quello di puntare sulla possibilità di convincere grazie all’argomentazione e alla riflessione è una prospettiva che, come si dovrebbe sapere, paga solo col tempo: troppo pochi hanno capito che papa Benedetto è andato incontro ai lefebriani non per distaccarsi dal Concilio, ma perché certo della capacità di orientamento derivante da un Concilio riformatore. E pochi hanno compreso che egli non ha denunciato l’Islam come religione volta ad esaltare la violenza; numerosi sono stati, invece, i teologi islamici che hanno inteso il suo appello alla ragione come invito all’esercizio di un’effettiva libertà religiosa; l’hanno fatto soprattutto quei 38 teologi islamici che, dopo Regensburg, gli scrissero per condividere con lui un autentico dialogo sulle cause e sulle prospettive di superamento della violenza religiosa.

Il grande tema di papa Benedetto, comunque, è stato e resta la fede. La circostanza che egli abbia dato le dimissioni nel 2013, in quell’ «Anno della fede» che egli stesso aveva indetto, presenta al contempo un aspetto tragico e una prospettiva colma di futuro. Concentrandosi sulla fede, egli non ha inteso imprimere sulla Chiesa un suo sigillo, perché la fede della Chiesa non dipende dal papa. Sin dai suoi inizi, il cristianesimo è una religione della fede, quella fede che supera le barriere fra ebrei e pagani, uomini e donne, schiavi e liberi, nazioni e lingue, ceti e classi; nella fede nasce la Chiesa.

Un’ultima postilla sulle sue dimissioni, che tanto clamore provocarono. Le dimensioni di quella scelta, per chi faccia sua la prospettiva paolina, forse sono due.

Va fatto un primo rilievo: ogni ministero è condizionato dalla persona che lo esercita; nonostante le molte critiche che le vengono rivolte, la Chiesa cattolica viene ammirata per le sue istituzioni, e non di rado, però, viene sopravvalutata l’importanza di questa sua componente. Ma le istituzioni sono rilevanti se sono vitali le persone che danno loro un senso; quella di un papato come gesto vuoto, come semplice involucro o come mera forma sarebbe una prospettiva orribile. Papa Ratzinger ha avvertito il rischio che quest’ipotesi si traducesse in realtà e ha risparmiato a sé stesso e alla Chiesa tale catastrofe.

In secondo luogo va tenuto presente che il ministero supera la persona, e il miglior termine per indicarlo è «servizio», e ciò aiuta la Chiesa nel suo cammino attraverso il tempo; se fosse mancato questo servizio, la Chiesa cattolica si sarebbe già dissolta a causa delle crisi che l’hanno colpita. Il papa che si dimette apre la strada al suo successore, perché il ministero pontificio non è parte della crisi. In seguito alle dimissioni di un papa, tale ministero, come si è visto col pontificato di papa Francesco, ha anzi acquistato una maggiore qualità morale e anche teologica.

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