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Mihajlovic? Un leone, ma stop alla retorica dell'eroe-guerriero

 
Pino Donghi

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Pino Donghi

Calcio, Sinisa Mihajlovic è morto a 53 anni

Nell’annunciare la morte di un personaggio famoso, sportivo, artista, politico, intellettuale che sia stato, sui giornali e ancor più sui social media, si ricorre spessissimo alla metafora combattente

Mercoledì 21 Dicembre 2022, 13:30

Molte lacrime per il calcio. Di infinita gioia quelle argentine, sconsolate quelle dei francesi, immensamente tristi e senza facile conforto quelle dei familiari e dei molti tifosi di Sinisa Mihajlovic, l’ex calciatore e allenatore, da ultimo del Bologna, scomparso ventiquattrore prima della finale della Coppa del Mondo in Qatar. Nel ricordare il campione serbo sono stati moltissimi a testimoniare le sue doti di guerriero, e così lo ha salutato anche la premier Giorgia Meloni, «Hai lottato come un leone, in campo e nella vita. Un esempio». Non è la prima volta, anzi. Nell’annunciare la morte di un personaggio famoso, sportivo, artista, politico, intellettuale che sia stato, sui giornali e ancor più sui social media, si ricorre spessissimo alla metafora combattente. Coraggio, forza, determinazione, in qualche caso spavalda accettazione della sfida finale sono celebrati come gli atteggiamenti che, si suggerisce implicitamente, dovrebbero essere assunti da chiunque si trovi nella difficile contingenza di una diagnosi a dir poco severa quanto potenzialmente infausta. E se si entra in una libreria, tra gli scaffali, non sono pochi gli esempi di letterari mémoir redatti da pazienti, non necessariamente illustri, che raccontano - o hanno raccontato, purtroppo - l’ultima e definitiva battaglia. Un genere. Con alcune, non marginali, controindicazioni. Personalmente non ha conosciuto Mihajlovic altro che seguendolo da telespettatore, e che sia stato effettivamente «un leone» tanto da giocatore che da allenatore e, da ultimo, combattendo come un guerriero contro la leucemia che lo aveva colpito, non esito a crederlo. Né, in linea di principio e anche solo assecondando il buon senso, posso dubitare dell’utilità di una risposta proattiva e di un atteggiamento positivo quando ci si trovi nella scomoda condizione di chi riceve una brutta notizia dal proprio medico. Ma non ci si può nemmeno meravigliare se, invece, sia lo sconforto e il timore panico a catturarci. Perché vergognarsi di avere paura? L’esaltazione del coraggio e della forza, la celebrazione dello spirito guerriero può fare credere, del tutto inopportunamente, che siano queste (e solo queste) le caratteristiche che possono contraddistinguere (e scegliere) quello che ce la farà dall’altro destinato a soccombere. Ripeto: avere una disposizione fiduciosa nei confronti della vita, a maggior ragione nelle contingenze avverse, è sicuramente una qualità su cui poter contare, ma di qui a sentirsi in colpa perché non si avverte lo spirito del guerriero ruggire al cospetto del professionista in camice bianco che ci ha appena comunicato che siamo malati di cancro… beh! Di più: potremmo addirittura colpevolizzarci. Com’è che Mihajlovic ha combattuto come un leone mentre io me la sto facendo sotto? Oltre che malato, e grave, sono anche un codardo? Un po’, troppo, in effetti. Un po’ ingiusto.

Di tumore, purtroppo, si muore ancora, ma molto è cambiato. Dagli anni in cui a una diagnosi oncologica si aggiungeva, come fosse un suffisso, una condanna in mesi - tre, sei, massimo dodici - è passato, per fortuna, molto tempo e fenomenali sono stai gli avanzamenti terapeutici. Sempre più spesso capita di incontrare amici, conoscenti, di ascoltare storie di convivenza con la malattia che va avanti per anni, anche tanti. Non è un caso. In oncologia, per la maggioranza degli specialisti, in luogo di una improbabile e definitiva eradicazione della malattia, è proprio la strategia della convivenza quella che si pensa perseguibile: una coesistenza difficile ma non impossibile, e che richiede attenzione, ascolto e molta, tanta pazienza. E senza dimenticare che il medico, qualunque medico, è tenuto a prendersi cura dei propri pazienti, a provare a curarli al meglio delle sue conoscenze e capacità, ma quanto a ottenere la guarigione… solo chi professa con passione la medicina sa quanto è miracoloso, quasi ogni volta. Scandali e mal practise a parte - ci sono anche quelli, e vanno combattuti senza incertezze - non dovremmo mai sottovalutare la difficoltà, ogni volta, per un bravo professionista, di fare la scelta migliore per quel singolo paziente, con quella specifica patologia, nelle sua individuale manifestazione. La medicina o è personalizzata o non è. Ed è difficile. Per fortuna, e tra le tante dichiarazioni di chi Mihajlovic lo ha invece conosciuto, ne ho trovata una autografa dello stesso campione serbo: «Non penso di essere un eroe, sono un uomo normale con pregi e difetti. Ho solo affrontato questa cosa per come sono io, ma ognuno la deve affrontare come vuole e può».

Si può essere eroi anche a colpi di sorriso, non bisogna per forza assumere l’espressione bellicosa del Re della foresta (un consiglio che mi sentirei di rivolgere a molti calciatori, inutilmente rabbiosi). Sarebbe normale gioire per le cose belle. Che detto a qualche giorno dal Natale, credenti o meno, credo si possa condividere. Mille auguri!

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