Ognuno ci arriva a modo suo e per interessi propri. La Lega e alcune regioni del Nord ne hanno fatto un provvedimento «bandiera», quasi una ragion d’essere. La premier Giorgia Meloni l’ha abbracciata come merce di scambio per incassare l’appoggio degli alleati al presidenzialismo. I governatori del Sud si sono innamorati dei «pieni poteri» che deriverebbero dalla riforma. E poi c’è il Pd, con il candidato alla segreteria Stefano Bonaccini che ha varcato il Rubicone non solo per tessere la trama congressuale partendo da Bari ma anche per ricordare ai dem pugliesi che, a certe condizioni, anche il Mezzogiorno potrà trarne un grande vantaggio. Insomma, in un modo o in un altro l’autonomia differenziata piace a tutti. O, quantomeno, tutti hanno voglia di farci i conti, di «stare dentro» il discorso, come si direbbe in gergo politico.
Qualche forza d’opposizione, e meno male, storce il naso. Ma di fatto la maggioranza di governo e il primo partito del campo avverso, nelle loro diverse articolazioni, hanno tutte le intenzioni di misurarsi con il problema, nonostante da anni «la secessione dei ricchi» sia oggetto di autorevoli (e motivate) scomuniche meridionali. La parola magica per disinnescare il controcanto è Lep, livelli essenziali delle prestazioni. Una sorta di «livella», più che di livello, che dovrebbe mettere tutto in pari e permettere all’autonomia di svilupparsi senza spaccare il Paese in due o in venti. Ma ha ragione il presidente della Svimez, l’economista Adriano Giannola, quando sostiene che i Lep sono più che altro un’entità «metafisica» che da vent’anni, senza successo, si cerca di calcolare commissione dopo commissione. Sempre ammesso e non concesso che qualcuno ora ci riesca in tempi record, bisognerà poi trasferire il calcolo nella realtà. Una roba che costa miliardi e presuppone altri mesi da dedicare all’impresa.
Tempo e soldi, una pessima combinazione a fronte di una «taranta» autonomista che sembra aver reso tutti ansiosi di iniziare a far ballare risorse e competenze. Più che un esercizio di perequazione, i Lep sembrano un esercizio retorico, un modo per «educare» l’autonomia differenziata, per renderla presentabile. Ma soprattutto per rendere presentabile chi, da Sud o da sinistra, intende abbracciare la causa.
Tutto legittimo e comprensibile. Tuttavia rimane ancora da capire la cosa più ovvia e cioè perché l’autonomia, nelle sue varianti selvaggia o educata, sia necessario farla a tutti costi, ingegnandosi in mille modi pur di farla digerire al proprio elettorato o al proprio territorio. Evidentemente, come suol dirsi, l’avrà «prescritta il medico», una metafora popolare per dire che qualcuno o qualcosa ha esercitato negli anni una egemonia tale da trascinare nell’agone federalista anche chi, come la destra centralista, pezzi di progressismo o gli amministratori meridionali, dovrebbe, per vocazione, accasarsi in altre parrocchie. Sarà utile ricordare che la disastrosa riforma del Titolo V della Costituzione, anno del Signore 2001, porta la firma del centrosinistra di allora. Sono gli anni della Lega «costola della sinistra» e della devolution come pratica virtuosa e trasversale.
Non sorprende quindi che, dopo quattro lustri, si sia ancora allo stesso punto. Evidentemente, esiste una sorta di scuola dell’obbligo del federalismo rafforzato che tutti, prima o poi, sono tenuti a frequentare. E allora, chi è il «medico» di cui sopra? Chi sta, oggi come vent’anni fa, all’origine di tutto? Non può essere la Lega, partito uscito con le ossa rotte dall’ultima tornata elettorale e soprattutto completamente incapace di penetrare le accademie, i salotti buoni o i circoli intellettuali lì dove si fa il pensiero della «minoranza rumorosa» che guida il dibattito pubblico. All’orizzonte non si vede nemmeno un qualche maître-à-penser, un qualche battitore libero di spessore come fu il cantore dell’Italia federalista Gianfranco Miglio. Niente, l’encefalogramma è piatto. C’è il fenomeno Bonaccini, certo, che pure qualcuno se lo tira dietro ma non basta a spiegare questa sorta di mobilitazione generale.
E dunque? Dunque non resta che una risposta: l’egemonia non la esercita né un partito, né qualche libero pensatore né un candidato al congresso del Pd. La esercita il Nord. Il Nord che parla poco e pesa tanto, contrappunto di un Sud che parla tanto ma pesa poco. O addirittura nulla. Al punto da non riuscire nemmeno a difendere una misura, il Reddito di cittadinanza (Rdc), utile a non ritrovarsi fra un anno con un altro mezzo milione di poveri sul groppone come da ammonimento dell’ultimo rapporto Svimez.
È sorprendente, e al contempo amaro, constatare con quanta facilità il centrodestra, scomunicando il Rdc, abbia rinunciato a parte dei voti del Sud, regalando percentuali e collegi a un M5S che diversamente sarebbe finito al tappeto. La Meloni, forse d’intesa con il governatore Luca Zaia, ha preferito andare a prendersi i consensi del Nord-Est sfidando Salvini sul suo terreno d’elezione. Più elettrizzante, certo, e come al solito perfettamente legittimo. Ma anche significativo. E molto. Se il federalismo a trazione nordista è una scuola dell’obbligo, la questione meridionale, a quanto pare, è un corso opzionale. E senza nemmeno l’obbligo di frequenza.