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Contanti, accise, province: anche il governo Meloni vittima della «sindrome di Penelope»

 
Michele Partipilo

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Michele Partipilo

Contanti, accise, province: anche il governo Meloni vittima della «sindrome di Penelope»

I risultati sono catastrofici e spiegano l’arretratezza in cui versa il Paese. Ogni pezzo della macchina Stato mostra difetti enormi dovuti a questa particolare forma di damnatio memoriae

Sabato 10 Dicembre 2022, 13:41

Né i volumi di Tocqueville né gli scritti di Machiavelli, è l’Odissea il testo guida della politica italiana, afflitta da quella che potremmo chiamare la «sindrome di Penelope» (nulla a che vedere con l’omonimo disturbo psicologico). Ogni nuovo governo sente il bisogno di cancellare, modificare, disfare la «tela» del governo precedente. Perché le scelte politiche non sono adottate perseguendo il bene comune, bensì per soddisfare le esigenze dei gruppi sociali di riferimento dei partiti che formano la maggioranza. Tenere fede alle promesse elettorali porta a rinnegare scelte e distruggere progetti pregressi per adeguare la realtà alle nuove idee.

I risultati sono catastrofici e spiegano l’arretratezza in cui versa il Paese. Ogni pezzo della macchina Stato mostra difetti enormi dovuti a questa particolare forma di damnatio memoriae. Dalle infrastrutture alla cultura, dall’organizzazione della pubblica amministrazione alla scuola, è un susseguirsi di abbattimenti di quello che c’era prima. In passato, quando per costruire basiliche, monumenti e castelli si avvicendavano papi, vescovi e feudatari l’opera interrotta non veniva abbattuta. O la si completava secondo l’idea iniziale o, al massimo, veniva modificata secondo le nuove esigenze e i nuovi gusti estetici. Sono infiniti gli esempi di chiese e dimore avviate con uno stile e terminate con un altro. È un modo anche questo di rispettare la storia e il suo divenire. A partire dalla fine della Prima Repubblica, invece, la politica italiana ha scelto di ripartire facendo un punto zero del passato. Un esempio di nascente «cancel culture».

Anche l’esecutivo Meloni, purtroppo, appare afflitto dalla sindrome di Penelope. In una quarantina di giorni di governo i casi sono già parecchi. A cominciare dal più discusso: l’obbligo del Pos. Il 30 giugno scorso sono entrate in vigore le sanzioni per chi non l’avesse rispettato. Dopo qualche mal di pancia, è stato di fatto metabolizzato da commercianti, ristoratori e professionisti. In verità l’obbligo l’aveva introdotto il governo Monti nel 2012, ma non avendo previsto sanzioni, era rimasto un obbligo… all’italiana. In questi anni, comunque, moltissimi esercenti si sono attrezzati avendo compreso che no Pos no clienti. L’obbligo non prevedeva un minimo di spesa, in teoria anche il caffè al bar - a giugno costava ancora 80-90 centesimi - poteva essere pagato con moneta elettronica. E se il barista si rifiutava? Incorreva in una multa pari al 4% della transazione negata, cioè 2 centesimi. Fatto sta che caffè e cappuccini pagati con carta di credito sono stati più unici che rari.

Ma - si obietta - il problema sono le commissioni praticate dalle banche. È vero, verissimo. Allora logica vorrebbe che, in continuità con la scelta adottata a giugno, si intervenisse sulle commissioni, vero ostacolo alla diffusione del Pos. Invece no, entra in ballo la sindrome di Penelope: è più facile cancellare il vecchio obbligo, inventarsi una soglia che ammortizzi il peso delle commissioni e andare avanti. Salvo poi fare la figura dei soliti retrogradi con l’Europa.

Altro esempio? La «rinascita» delle Province. Abolite a metà (nel senso che sopravvivono come organismo a elezione indiretta) ora il ministro Calderoli vorrebbe resuscitarle. Perché servono a migliorare la gestione della cosa pubblica? No, servono alla politica per distribuire altre poltrone e poi in questo modo si spinge ancor più verso il localismo insito nell’idea federalista della Lega. Se oggi la logica è privilegiare il Veneto rispetto alla Puglia, perché più ricco e con più opportunità, domani sarà privilegiata la provincia di Treviso rispetto a quella di Vicenza.

Ancora, si potrebbe dire del taglio delle accise sui carburanti. Il governo Draghi introduce la misura per contenere i prezzi stellari di gasolio e benzina. Non è né un atto di generosità né lo Stato ci rimette. Le accise sono un prelievo in misura fissa sul prodotto. Per esempio, su mille litri di benzina grava un’imposta di fabbricazione e vendita di 728,40 euro. Al contrario, l’Iva è in percentuale sul costo, per cui al lievitare delle quotazioni del petrolio lo Stato ha guadagnato molto di più, compensando così il taglio delle accise. Questa misura era d’aiuto a tutti gli italiani.

Però, per recuperare soldi pubblici da destinare alle promesse elettorali (leggi blocco cartelle esattoriali) il taglio delle accise è stato «tagliato» e portato da 35 a 25 centesimi al litro. Non pesano solo i 10 centesimi in più da pagare (in realtà 12,2 perché sulle accise grava pure l’Iva) quanto la logica di ripartire sempre da una pars destruens.

La carenza di continuità ha anche riflessi etici. A lungo andare produce e rafforza la convinzione che tanto, la legge cambierà. Avanza l’idea dello Stato «personale», nel senso fai da te: alla fine ci sarà un condono edilizio, un condono fiscale, un nuovo provvedimento che cancella una parte di quello che c’è e che a sua volta sarà cancellato da un altro governo. Si ha così la percezione di movimento e di sviluppo che però in realtà sono lentissimi o non ci sono affatto. Prepariamoci ora alla sindrome di Penelope alle prese con il ponte sullo Stretto di Messina.

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