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Quel sostenibile fascino dei contanti in tasca e addio «grande occhio»

Quel sostenibile fascino dei contanti in tasca e addio «grande occhio»

 
Andrea Di Consoli

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Andrea Di Consoli

Quel sostenibile fascino dei contanti in tasca e addio «grande occhio»

A me piace dare i soldi in contanti a mio figlio per le sue spese quotidiane. È un gesto bello, antico. Così come mi piace pagare coi contanti al bar, in libreria, al cinema. Mi piace proprio il gesto, quell’infilare le mani in tasca per tirare fuori il portafogli

Mercoledì 07 Dicembre 2022, 13:41

Non ho le competenze giuste per disquisire sulle differenze tra i pagamenti in contanti e i pagamenti elettronici. E poiché il tema è ingarbugliato e controverso, temo che tutti abbiano un po’ di ragione. Ma io vorrei affrontare l’argomento da un punto di vista differente; ovvero dal punto di vista di un uomo italiano di mezza età figlio di una certa provincia e di una certa mentalità famigliare e paesana.

Vengo da una famiglia di operai e contadini della Lucania, e di soldi, nella mia famiglia, ce ne sono sempre stati pochi. Non eravamo poveri – la parola «povertà» andrebbe usata con maggiore parsimonia e serietà – ma eravamo costretti a spendere con oculatezza. Quando mio padre doveva pagare cifre importanti – per un carico di legname, di paglia, o per pagare il meccanico – si chiudeva nella sua camera da letto e lo sentivo armeggiare coi tiretti. Poi lo vedevo uscire trafelato e ansioso coi contanti in mano, felice di avercela fatta.

Iniziai a fare il cameriere a quindici anni. Questo mi permise di avere una certa indipendenza economica. E devo dire che mi piaceva molto sapere che nella mia stanza – nascosti in qualche libro – ci fossero decine di banconote da cinquantamila lire. Mi dava sicurezza, mi faceva sentire grande. Così come mi faceva sentire sicuro avere soldi in tasca. Soprattutto quando divenni più grande, e iniziai ad avere storie d’amore importanti – sono figlio di una mentalità per cui i pagamenti spettano sempre all’uomo, mai alla donna. E così la penso ancora oggi, a costo di passare per vecchio rottame del famigerato patriarcato.

Lavoro da una vita, ma non ho una carta di credito. Ho solo il bancomat. Non ho mai acquistato online. Quando mi serve qualcosa, esco di casa e vado a cercarla. E se non la trovo, ne faccio a meno. Mi piacer uscire di casa con almeno due o trecento euro in tasca. Raramente esco con meno. Mi fa sentire sicuro. Mi dà forza e libertà. Certo, anche io pago spesso col bancomat al ristorante o al supermercato, ma tendenzialmente preferisco pagare in contanti. Mi dà l’esatta misura della spesa che sto facendo e del valore di ciò che sto comprando.

A me piace dare i soldi in contanti a mio figlio per le sue spese quotidiane. È un gesto bello, antico. Così come mi piace pagare coi contanti al bar, in libreria, al cinema. Mi piace proprio il gesto, quell’infilare le mani in tasca per tirare fuori il portafogli.

Aggiungo che mi è capitato più volte nella mia vita di aver dato in prestito soldi o di averli ricevuti, e questi gesti è giusto che rimangono privati, perché sono intimi, e hanno a che fare con le nostre fragilità e le nostre debolezze.

I soldi di carta e di ferro sono archetipi da cui non voglio staccarmi. Ho un conto corrente dove vengono accreditati i compensi dei miei lavori, ma trovo rassicurante avere qualche migliaio di euro nascosto in casa – in qualche libro di Montale o di Steinbeck. È un modo un po’ selvaggio di vivere, ma non voglio rinunciarci. Per qualsiasi emergenza, proprio come mio padre, mi chiudo in casa e vado a cercare i contanti; dopodiché esco fuori, soddisfatto di avercela fatta ancora una volta.

Ma il motivo più importante per cui amo i contanti è che io penso che lo Stato e l’Economia non debbano sapere tutto di noi.

Ovviamente sono una persona che non evade e che cerca di rispettare le leggi – anche se a volte, da libero professionista, faccio fatica a pagare tutte le tasse – ma francamente io non voglio vivere in una società dove tutto ciò che faccio è tracciato. Non ho grandi vizi – a parte fumare, comprare compulsivamente libri e spendere molto in cibo e ristoranti – ma mi piace l’idea che si possano fare cose in segreto, senza farlo sapere allo Stato e all’Economia. La segretezza non è sempre una cosa losca. Anzi, spesso è la parte più delicata, nobile e intima di noi. Perché si accetta così a cuor leggero di far sapere tutto della nostra vita? Io sono una persona tendenzialmente perbene (non mi fido mai di chi si definisce perbene in maniera assoluta), ma se presto dei soldi a un amico o ne prestano a me, mi piacerebbe che non si sapesse, fosse anche solo per non provare vergogna.

Viviamo uno strano tempo. Mentre la Finanza e l’Economia spesso fanno operazioni occulte e segrete, a noi cittadini è richiesta una totale tracciabilità. Come non ci fosse nessun muro divisorio tra la vita pubblica e sociale e quella intima e affettiva.

Se davvero un giorno di noi sarà tutto tracciato, mi chiedo quale sarà, a quel punto, la differenza tra un’organizzazione collettiva totalitaria e la nostra, che si dice liberale. Mi si dirà: è un modo per evitare l’evasione fiscale e il riciclaggio del danaro sporco. Ma io credo che le grandi evasioni e i grandi riciclaggi non avvengano su cifre piccole, ma su masse finanziarie ben più consistenti.

Aggiungo che una società liberale corre sempre dei rischi, e che azzerare i rischi è esattamente lo scopo delle organizzazioni totalitarie. E allora va bene tutto, ma non esageriamo nell’additare chi preferisce – per le ragioni che ho detto prima – fare dei pagamenti in contanti. Tra telecamere, connessioni internet e pagamenti online è quasi impossibile non essere osservati dal Grande Occhio che ci sorveglia. Ma che male c’è se facciamo sopravvivere qualche fisima e qualche comportamento un po’ antico? Perché costringerci ad accomiatarci ogni giorno da un’abitudine? Perché non lasciarci nemmeno una certezza? Fosse anche la certezza – un po’ puerile, un po’ paesana – di sentirci al sicuro con qualche cento euro in tasca.

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