Bene: ora che i pennacchi si sono ammosciati; le Frecce tricolori rientrate alla base dopo aver tinteggiato di bianco, rosso e verde il cielo azzurro di Bari; le navi militari tornate nei porti sgombrando del loro grigio triste l’orizzonte blu del lungomare barese. Ebbene: dopo che tutta la rappresentazione del 4 novembre è andata in scena, come da protocollo, vorrei raccontare una storia. Con una breve e necessaria premessa.
Amo profondamente il mio Paese, pittoresco e cialtrone, e non potrei amarne un altro sentendomi così profondamente italiana: i suoi mari, i suoi monti, i suoi paesaggi unici. Ne amo i borghi e i racconti antichi che anche le pietre narrano. Lo amo a tal punto da arrabbiarmi ancora e ancora, quando constato che altri, che pur dovrebbero per ruolo e capacità, proteggerlo e preservarlo, se ne fregano: avvelenandolo con l’ inquinamento, sfregiandolo con cemento ovunque, soffocandolo con una burocrazia che non muore mai ma che ammazza chiunque vi si accosti. Mi indigno quando sento vaneggiare chi è al timone, di autonomia differenziata tra le Regioni che di questo Paese sono il corpo unico, per smembrarlo e distruggerlo.
Dunque, la storia del 4 novembre. Mio nonno Tommaso, medaglia di bronzo al valor militare, me la raccontava ogni anno con un particolare in più, affinché crescendo, potessi comprendere meglio: diciottenne partì da Binetto, paese alle porte di Bari, per andare a combattere nel nord Italia contro gli austriaci durante la prima Guerra mondiale (1915-1918). Robusto e forte, veniva utilizzato per portare, in sella ad una bicicletta, armato di fucile con sulla punta la baionetta, dispacci di comando dalle retrovie sino al fronte. Avanti e indietro, dentro l’inferno delle trincee di fango e morte, come diceva lui. Nell’inferno, un giorno, si beccò la scheggia di una bomba nella spalla, mentre gli austriaci che avevano sfondato la difesa italiana avanzavano urlando, infilzando, finendo quelli a terra con la baionetta. Il diciottenne contadino binettese Tommaso pedalava più veloce di quanto potesse, colando sangue, verso le retrovie. All’improvviso, in quel frastuono, sentì il suo nome, chiamato in dialetto. Era uno dei ragazzi in terra, con la gamba maciullata, un ragazzo di Grumo. Lo conosceva di vista. Era ferito, avrebbe potuto continuare a pedalare. Si fermò, con le grida degli austriaci sempre più vicini e le urla strazianti dei feriti che morivano infilzati. Caricò l’altro ragazzo che bestemmiava e pregava di dolore sulla canna della bicicletta, bestemmiando e pregando pure lui nell’unica lingua che entrambi parlassero, il dialetto: riuscì in qualche modo a mettere in salvo sé e quello che poi divenne il suo migliore amico. Meritando quella medaglia in bronzo che tenne sul comodino fino alla fine della vita. Questa era la storia del 4 novembre per la mia famiglia. La guerra del nonno puzzava di polvere da sparo e carne bruciata. Carne di cristiani e di animali. Il rumore della sua guerra era quello delle bombe e delle urla di coloro che venivano finiti a colpi di baionetta, degli zoccoli di cavalli, asini che scappavano impazziti da quell’inferno di grida, fuoco e morte. L’odore del sangue che usciva tiepido sul corpo pian piano sempre più freddo, mentre lui pedalava e pedalava con quell’altro ragazzino aggrappato al suo collo. E alla vita.
Quando il nonno da vecchio tornava al suo paese, con me bambina per mano, si fermava a leggere i nomi dei ragazzi mai più tornati, sulle stele ai Caduti della Grande Guerra che testimoniano, in ogni città, ogni paese, ogni borgo italiano quanto ci è costato il 4 novembre. Erano racconti, silenzi, qualche lacrima asciugata da una mano che avrebbe voluto cancellare l’inferno dei ricordi che non lo lasciarono mai più. Chissà se Tommaso, che spegneva la tv se davano film di guerra, avrà mai saputo che la «sua» guerra, per la quale fu istituito il 4 novembre «a completamento dell’unità nazionale», costò all’Italia 1milione 240mila morti , di cui 651mila militari e 589 mila civili. Che quel conflitto viene considerato uno dei più sanguinosi della Storia umana con 16 milioni di morti e 20 milioni tra feriti e mutilati. Il nonno diceva che nelle trincee c’erano ragazzi di ogni parte d’Italia , che sembrava la torre di Babele tra preghiere e bestemmie: e che spesso non si capivano. Manco gli ordini, si comprendevano: se non obbedivi però, se non avanzavi nell’inferno, ti sparavano addosso, gli austriaci davanti e i tuoi da dietro. Eppure si aiutavano l’uno con l’altro, quei ragazzini mandati allo sbaraglio. Perché si moriva di fame e di freddo, nelle trincee, mica solo per le bombe e le baionette. E, diceva, se quella maledetta scheggia non lo avesse quasi dissanguato sarebbe tornato indietro per prenderne altri, da terra.
Questo è il 4 novembre che unì l’Italia e che dovremmo ricordare a futura memoria: un lungo, infinito elenco di nomi di centinaia di migliaia di giovani italiani che parlavano lingue, dialetti diversi, da nord a sud, tutti mandati a morire come carne da macello.
Chissà quanti giorni ci vorrebbero per leggerli quei nomi. Chissà quante ore di diretta televisiva da ogni stele in ogni più sperduto paesino d’Italia.
E invece, abbiamo i pennacchi. Le parate dei reparti in armi. Le navi e le Frecce. E sai, caro nonno Tommaso, pure una guerra per procura alle porte di casa: ma questa è un’altra brutta storia.
Anche se le guerre si somigliano tutte.