In fondo sarebbe bastato farsi spiegare dai demografi perché in Italia per le elezioni legislative, che sono le più importanti per la politica nazionale, si va a votare in primavera, quando non solo si conta la presenza più alta in sede dei residenti, ma c’è anche un quadro meteorologico più stabile ed omogeneo, in un Paese lungo e disomogeneo come il nostro. E così Napoli e Torino, la terza e la quarta città italiana, colpite in pieno da un maltempo cattivissimo, hanno visto crollare la partecipazione al voto. Allora quel 64% di votanti (tanto per capirci: in Francia qualche mese fa fu il 47%), peraltro largamente annunciato, non è poi così poco. Anzi racconta la voglia di partecipazione, di protagonismo civile, di non essere più sospinti sul margine esterno di una pagina scritta da altri: è questo che hanno detto gli italiani col voto di domenica.
Piuttosto domandiamoci con quale senso di frustrazione la gente è andata a votare quando persino il voto dell'uninominale - quello che dovrebbe essere più carico di «intuitus personae» - non poteva essere disgiunto dal partito o dalla coalizione con le liste bloccate. Tutto bloccato: si vota il leader e basta. Ma si vota, e gli italiani non hanno rinunciato a quel pezzetto di democrazia, mutilato della scelta degli eletti, ma pur sempre una possibilità di dire il proprio pensiero politico.
Ne tenga conto il nuovo Parlamento e metta mano a questa infausta legge elettorale che continua a rubare al cittadino un diritto fondamentale. La seconda evidenza è il risultato del Movimento Cinque Stelle, che veniva percepito in ripresa negli ultimi giorni di campagna elettorale, ma non con le proporzioni che ha poi rivelato all'apertura delle urne, e che mettono nel conto un trascinamento di segmenti di elettorato altrimenti in fuga dal voto. Un risultato consolidato soprattutto nelle aree meridionali.
Ci sarà tempo per meditare su questo dato, ricordando anche che in politica non esistono spazi vuoti: la fisica che regna nella scena politica resta quella del riempimento. E il Sud, da troppo tempo, era vuoto di tutto.
La terza evidenza è, insieme alla vittoria di Giorgia Meloni, annunciata con trombe d'argento da cherubini e serafini, il drastico ridimensionamento dei suoi partner e l'occasione perduta dall'altro emisfero della politica italiana che, se fosse stato in grado di disegnare una formazione di impianto «ulivista» avrebbe potuto contendere la vittoria - non così clamorosa - alla destra. A Letta tocca di fare il Cireneo di turno, ma il fallimento di questa possibilità vede più di un autore. Ci ha messo del suo Calenda nel sodalizio con Renzi che molti giudicano elettorale e non proiettato verso un nuovo soggetto politico; e ci sta Conte, che ha scelto la solitudine delle origini pentastellate.
D’altro canto le opposizioni nel loro insieme oggi altra prospettiva non vedono se non quella di sperare in una conflittualità interna alla coalizione di centro-destra, una minaccia che pende proprio per la modestia dei risultati dei due partner della vincitrice. Ma non è una gran cosa pensare di entrare in partita non per i propri meriti ma solo per il default degli altri.
Della prima cosa da fare si è detto: il cambio di una orribile legge elettorale per restituire ai cittadini il maltolto, cioè il diritto di scegliersi la persona da eleggere. Ci metteranno mano solo se ci sarà una forte pressione popolare o qualche pronuncia della Consulta. Sarà anche complicato procedere con le riforme costituzionali, pur necessarie, con la via delle Commissioni bicamerali, fallite sempre: occorrerebbe una Convenzione costituzionale votata dal popolo con la preferenza. Varrebbe anche come gesto di riconciliazione della politica, ma, chissà. Per il resto la mossa spetta alla Meloni, che con una manciata sopra al 20% è il primo partito italiano. La speranza è che quel che ha fatto Draghi per l’Italia mettendoci la sua faccia, oggi non venga disperso. Anche perché non si ha la sensazione di avere davanti a noi tempi da belle epoque.
Un’ultima cosa: a fare i conti quasi il 60% dei partiti che hanno conquistato una rappresentanza parlamentare è stato dall’inizio (FdI) o in corso d’opera (FI, Lega, M5S), critico o addirittura ostile a Draghi. Quello stesso Draghi che raccoglie la fiducia più alta degli italiani. Strano, vero?