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Sarah e tutte le altre le piccole grandi donne che muoiono

 
Maristella Massari

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Maristella Massari

Avetrana, Sarah Scazzi, dieci  anni fa l’incubo nella casa degli orrori

Donne protagoniste nel male, senza un briciolo di bene. E il pensiero corre all'ennesima estate dei femminicidi

Sabato 27 Agosto 2022, 16:13

Non muore mai Sarah. Il suo sorriso acerbo, il suo dolore adolescente strappato alle pagine dei diari e dato in pasto alle dirette Tv, lo scempio della memoria, la pruderie esasperata per una storia di provincia divenuta in una estate caldissima il capocronaca di tutte le testate nazionali. Ieri in provincia di Taranto sono giunti il cast e la troupe che daranno forma ad una nuova serie televisiva sull’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa e gettata in un pozzo nelle campagne di Avetrana il 26 agosto 2010. Proprio ieri, per un bislacco gioco del destino, esattamente a distanza di 12 anni da quel delitto.

È la società di produzione cinematografica «Groenlandia» a curare la realizzazione della serie su uno dei fatti di cronaca più seguiti e divisivi degli ultimi anni. La fiction, intitolata Qui non è Hollywood, comincia la sua produzione a distanza di circa un anno dalla docuserie Sarah – La ragazza di Avetrana, prodotta sempre da Groenlandia e andata in onda su Sky. La regia è stata affidata al pugliese Pippo Mezzapesa, reduce da Ti mangio il cuore. Groenlandia ha scelto come direttore della fotografia Giuseppe Maio e il barese Paolo De Vita nel ruolo di zio Michele, il contadino condannato in via definitiva per occultamento del cadavere, ma che continua a professarsi l’unico reale responsabile dell’omicidio. Omicidio per aver commesso il quale sono state condannate due donne.

Donne protagoniste nel male, senza un briciolo di bene. E il pensiero corre all'ennesima estate dei femminicidi. L'ultimo, orrendo, è quello di Alessandra. Bellissima, libera, bramata forse per questo dall'oscuro desiderio di possesso che uomini piccoli credono di poter esercitare sulle donne. Ci si chiede cosa scatti nella mente di un uomo rifiutato. Quale demone si impossessi del suo cuore, spingendolo al punto da decidere di togliere la vita in una maniera così cruenta ad un'altra persona. Ci sono momenti in cui tutto si vorrebbe essere, tranne che una giornalista. Perché raccontare di questa deriva agghiacciante, di questo tremendo sonno della ragione comporta una inevitabile empatia. Con le vittime, prima di tutto.

Ti si spossa l’anima quando la vita degli altri si dipana all’improvviso sul taccuino. Le vite degli altri. Quelle che spesso, da vicini della porta accanto giudichiamo col metro del Mulino Bianco.

I numeri delle donne uccise da compagni, mariti e fidanzati è sovrabbondante rispetto al contrario. Tanto che si è sentito il bisogno di coniare quell’orrendo termine di «femminicidio». In Italia fino a una quarantina di anni fa (non una quarantina di secoli fa...) c’era un’aberrazione chiamata delitto d’onore e un’altra detta matrimonio riparatore. «Occorre comprendere e ritrovare il vero significato del legame uomo-donna, fatto di reciprocità, dono di sé, progettualità condivisa, mutuo sostegno, rispetto. L’amore è vita e non può mai diventare violenza, persecuzione e morte», ha detto l'arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi. Parole sante, caro cardinale. Da sempre le femministe si affannano a spiegare che la sola risposta repressiva – pur indispensabile nei singoli casi concreti – è insufficiente sul piano della prevenzione. Perché i «femminicidi» maturano in ambienti culturali che non tollerano l’autonomia e l’indipendenza delle donne ed è proprio su questo terreno culturale che è va fatto il lavoro di medio e lungo periodo. L’aumento dei «femminicidi» non è dovuto al cambiamento degli uomini ma, piuttosto, a quello delle donne. Che hanno raggiunto una maturazione, un grado diffuso e alto di istruzione, che hanno imparato a vestirsi di libertà, indipendenza e consapevolezza di sé al punto da disorientare gli uomini, meno inclini alla mutazione sociale.

L’ansia da prestazione è roba da maschi, poco avvezzi a metabolizzare il fallimento trasformandolo in un’opportunità e più portati a mollare se cresciuti all’ombra di donne che gli si sono sostituite nei momenti topici della vita. Nella lotta al femminicidio, il fardello del cambiamento non chiedete di portarlo (solo) agli uomini. Madri di figli maschi, piuttosto, insegniamo loro fin da bambini l’indipendenza e l’autonomia, oltre al rispetto e all’educazione nei confronti dell’universo femminile. Cominciamo dalle piccole cose. Abbattiamo le barriere delle mansioni, anche domestiche. Smettiamola (e vale anche per le figlie femmine) di fare le mamme spazzaneve pronte a spianare la strada dagli ostacoli. Il fallimento è una lezione e, come tale, è terapeutico. Allo stesso tempo, insegniamo alle figlie che essere autonome e indipendenti è un valore aggiunto. Non basta scrivere che bisogna dare una nuova educazione morale, sentimentale e sessuale nelle scuole se questa non viene insegnata a casa. Finché le donne saranno complici - non sempre consapevoli - del potere maschile, chissà quante altre sorelle piangeremo.

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