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Draghi come Cesare: accerchiato dai «suoi» con l’incubo Senato

 
Bepi Martellotta

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Bepi Martellotta

Draghi come Cesare: accerchiato dai «suoi» con l’incubo Senato

Tutte le forze politiche presenti in questo Esecutivo, che va dall’estremo sovranismo della Lega alla falce e martello di Leu, evidentemente, non ce la fanno più a convivere

Mercoledì 13 Luglio 2022, 13:53

Gli storici dicono che il massimo esperto di accerchiamento (in senso militare) sia stato Giulio Cesare. Riusciva a circondare le truppe barbare, decisamente più corpose di quelle romane, per poi assediarle nel momento migliore. Ora, non entrerà certamente negli Annali questa mossa di accerchiamento che sta andando in scena tra Montecitorio e Palazzo Madama. Ma - lungi dall’osare un paragone tra il più grande condottiero di Roma e i parlamentari di questa XVIII legislatura italiana – a cosa di deve il repentino cambiamento di questi giorni, quando all’improvviso i giornali hanno smesso di decantare le lodi di SuperMario Draghi e hanno cominciato a riferire delle convulse cronache di un governo in crisi?

L’accerchiamento, in realtà, sembra la chiave di lettura. Tutte le forze politiche presenti in questo Esecutivo, che va dall’estremo sovranismo della Lega alla falce e martello di Leu, evidentemente, non ce la fanno più a convivere. E sin qui, tutto noto. Lo scalpitio dei partiti che non vedono l’ora di contarsi alle urne si avverte da tempo. Si trattava solo di aspettare qualche mese, il tempo giusto per consentire a chi dovrà salutare i banchi delle Camere dopo appena una legislatura di maturare il diritto al vitalizio. Ma non basta a spiegare la precipitosa china degli eventi di questi giorni, con le forche caudine del voto al Senato di giovedì che attendono l’Esecutivo Draghi.

Quello che è accaduto nelle ultime settimane fuori dai confini, infatti, non deve essere sottovalutato. Il gotha europeo che sta provando a tenere le barriere contro Putin si va sfaldando di giorno in giorno. E attorno a SuperMario prima è caduto il pezzo da novanta della Francia, Macron, finito in minoranza nel suo parlamento. Poi è stata la volta di Boris Johnson, il più agguerrito di tutti nel difendere l’Ucraina dall’aggressore, finito nelle macerie delle dimissioni tra i fischi perfino dei suoi sostenitori. Quindi il cancelliere tedesco Scholz, avvolto dalle nebbie degli scandali e alle prese con una claudicante Germania bisognosa di gas russo. Insomma, tutta la corazzata europea e perfino il monolite britannico della Brexit navigano a vista. E quei tre presidenti che chiacchieravano di notte nella carrozza di un treno per andare a salutare di persona Zelensky, passando i confini della guerra dalla Polonia, oggi sembrano tutti destinati a prendere un treno senza meta.

Ecco perché per Draghi, acclamato decisore europeo prima dal podio della Banca centrale e poi da quello di Palazzo Chigi, oggi è decisamente più difficile restare in piedi. Ed ecco perché quei mugugni sin qui celati, e spesso rivolti l’un contro l’altro dagli «alleati per forza» del suo governo, ora si indirizzano su di lui, concentrandosi sull’uomo forte protetto dal Quirinale e da Bruxelles diventato, nel giro di pochi giorni, improvvisamente più debole in un’Europa più debole.

Sin qui lo scenario internazionale, ma poi ci sono le tensioni tutte tricolore, ovvero quella ripresa (o resilienza, come si usa dire oggi) che ancora non si vede e che ogni giorno viene annunciata a piè sospinto da tutti, ma della quale non si percepisce nemmeno l’ombra. Il fantastico Pnrr che con una pioggia di soldi risolleverà miracolosamente le sorti dell’Italia divisa in due è ancora tutto sulla carta. E le riforme che dovrebbero accompagnarlo, asfaltando la strada del progresso con cui riparare ai ritardi del Sud, sono ancora nei cassetti. Anzi, si passa più tempo a discutere di come smantellare il Reddito di Cittadinanza che a capire come mettere in piedi i progetti, tutti affidati a «cabine di regia» territoriali i cui risultati – a giudicare dalla spesa dei fondi europei – sono oscuri. E, dunque, nemmeno fai in tempo a dedicarti al Pnrr che già, dall’altra parte, ci sono i Cinque Stelle a protestare e chiedere il disarmo. Fuori dal palazzo, l’onda delle famiglie con la cinghia stretta, dei consumatori col portafogli vuoto, delle bollette che schizzano a prezzi stellari, della benzina che pesa più dell’oro. Insomma, del Paese che arranca.

Ed ecco sfaldarsi tutta la tela del matrimonio forzato nel «Governo di emergenza»: Salvini, Renzi, Berlusconi. Un fuggi fuggi generale che rischia di materializzare, nel giro di pochi giorni, una parola magica sino a ieri impensabile nell’era di SuperMario: «crisi di Governo». Dove? al Senato, la fossa dei leoni di tutti i governi che lì diventano anatra zoppa. E dove perfino «Giulio Cesare» finisce accerchiato dalle stesse truppe che dovevano sostenerlo.

Sia chiaro, così (forse) finisce il Governo di emergenza, ma l’emergenza da cui è nato non è finita affatto.

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