È molto agra la vita degli Spatriati. Mario Desiati lo sa ma ha voluto ricordarlo a un Paese inquieto (e quindi già «spatriato» di suo). Lo ha fatto attraverso una provocazione da scrittore disarmato (come i profeti disarmati), nella notte di giovedì scorso, la notte da Strega al Museo etrusco di Villa Giulia. La sfida non era negli «occhi truccati» o nelle «scarpe arcobaleno» calzate dal vincitore del premio letterario con tanti saluti a certi pruriti conformistici. La sfida era nella voce, la sua, quando ha ricordato due «spatriati» in carne e ossa: Mariateresa Di Lascia e Alessandro Leogrande. Entrambi, in anni diversi, dalla Puglia si proiettarono nel mondo con la loro visione transnazionale (Di Lascia fu leader di un Partito radicale che già si fregiava di quella etichetta) e oltre ogni frontiera (ricordiamo cos’ha significato il concetto di frontiera e di attraversamento, dentro e fuori il testo scritto, per un autore di vero talento quale fu Leogrande). Desiati ha provocato perché, da buon meridionale, ha sollecitato la memoria. Cosa assai urticante per gli italiani.
È molto agra la vita «spatriata»; ha un prezzo altissimo da pagare: lo straniamento. Chi ricorda gli occhi di bambini, donne, anziani ucraini, sradicati dalle loro terre a colpi di artiglieria, si interroghi. Direte: cosa c’entrano con la storia tormentata di Francesco Veleno e Claudia Fanelli, protagonisti del romanzo? Apparentemente nulla. Apparentemente. Perché la scelta di premiare gli Spatriati di Desiati, magari inconsciamente, ha molto a che fare con certe vicende di vittime e volenterosi carnefici. Dal Sud del Sud dei Santi alla Berlino in perenne trance da avanguardia pluriverso (artistica, politica, sociale).
L’universalità del messaggio di Desiati, la radice del successo del romanzo, è nell’attualità della risposta «spatriante» perché tale diventa l’esistenza quando è priva di radici, priva di amore, priva di una idea di futuro per colpa della guerra o della fame (anche per gli anziani la parola futuro esiste quando resta saldo il legame col passato, attraverso gli affetti del presente). Cercare un’identità, ricreare un’identità. Quali le coordinate? Desiati ha offerto una risposta vincente attraverso la letteratura. Ha saputo, parafrasando Roland Barthes, accorciare le distanze tra la rozzezza dei tempi attuali e la vita che è tale perché è sottile.
Perché sembra difficile trovare in questi tempi surriscaldati, di alluvioni e onde anomale una segreta formula della felicità (ammesso che sia, lasciando che sia), da applicare alle relazioni umane diventate ormai equazioni con troppe incognite. Perciò in un mondo denso di entropie, per afferrare l’inafferrabile occorre abitare una patria delle identità senza latitudini o meglio dell’unica latitudine possibile, quella in cui si è come si è (e lo ricordava Leonardo Sciascia) serve l’amore. Che sia libertà, che sia legame mai sciolto con la propria terra, che sia riconoscere la propria casa lì dove si resta umani. Si è detto che quello dello scrittore nato a Locorotondo, martinese d’adozione, è il successo di un Mezzogiorno diverso, proiettato nel domani attraverso una generazione che, come l’Angelus Novus di Klee, vola verso il futuro con lo sguardo rivolto a un punto fisso.
Quel punto non è più. O meglio non è più rappresentabile dalla fissità del Mezzogiorno che vinceva, per esempio, lo Strega del 1988 con Gesualdo Bufalino e l’orrido angusto dell’isola-prigione borbonica raccontata ne Le menzogne della notte.
Il Sud di Spatriati è ovunque, perché è dentro ognuno di noi il desiderio di trovare una patria speciale che si chiama libertà d’amare. E nonostante tutto, avvertiva Salvatore Quasimodo in un celebre verso, «l’uomo grida dovunque la sorte di una patria». La poesia s’intitola Lamento per il Sud. Desiati ha gridato la sorte di una patria l’altra sera nel suo trionfo romano. È sua la patria degli Spatriati, non più la stretta terra del rimorso, ma il mondo.