Vèstiti, usciamo. Tra gli eventi imprevedibili di questo «strano» 2022, che segue due anni decisamente «strani» (tanto per usare un eufemismo...), ce n'è uno: il fatto che siano stati anche e soprattutto i riti pasquali a trascinare via da casa orde di poltronisti consumati e consumanti-divani domestici. La sera del giovedì santo le città si sono improvvisamente riempite. Giovani e anziani in giro fino a tardi, come non ne vedevamo da tempo. E che cosa hanno pubblicato su Instagram e Facebook i soliti diportisti del web, che non riescono a non postare immagini dei luoghi che visitano? Fatevi un giro – a tempo perso – e troverete tra focacce, tramonti e compleanni, tante foto di riti, i famosi «Sepolcri» e i loro simboli, le processioni, le candele accese.
Sarà la paura della guerra, sarà la fede? Ancora non sappiamo, né possono esistere – per fortuna – le statistiche del cuore e dei sentimenti intimi. Ma se finalmente si esce, si vive, nonostante tutto, una vita presunta «normale», forse è una di quelle buone notizie che ogni tanto un giornale deve dare. Anche se all'altra pagina c'è il calvario vero di un popolo che sta vivendo crimini di guerra inenarrabili, anzi, narrati e un domani al centro di processi che saranno come sempre tardivi. E che forse ci faranno ricordare, tra qualche anno, questa rinnovata crudeltà che abbiamo sotto gli occhi. Con il distacco della memoria, con quell'abitudine che fa l'uomo incredibilmente resiliente all'efferatezza.
Il senso della rinascita ha da sempre fatto parte della Storia. E, anche se sembra un contrasto, in questi giorni c'è chi parte con il trolley per le vacanze di Pasqua e chi muore in una strage alla stazione ucraina, con la sua valigia da profugo accanto. Ci sono 15 milioni di italiani in viaggio per le vacanze primaverili di Pasqua e cinque milioni di persone fuggite dalla guerra in Ucraina. I numeri si scontrano e stridono, come stride pure l'essenza delle cose. Tanto che abbiamo i brividi. Ma, appunto, non serve recriminare, anzi. È una nota positiva (parola off limits, evocativa di altri problemi!) se torna la voglia di vivere. Se dopo le tante rinunce, si apre la finestra e si gode del clima tiepido che arriva, col gas per riscaldarci che – Putin o non Putin – non serve più, almeno nelle case.
Se tornano le code per i luoghi d'arte, se i musei offrono la loro bellezza e ci tirano con le braccia seducenti della cultura. Se – vèstiti, usciamo – andiamo a teatro, ci informiamo sulla prossima opera in scena e l'attendiamo. Se vediamo un film al cinema e non solo le serie Tv a sbafo, nel chiuso del nostro microcosmo salottiero. Se facciamo una scelta che si chiama Cultura: sì quella con cui, è vero, non sempre si mangia, ma che può divorare ogni altra piaga. Lo scrive il ministro Dario Franceschini in un libro appena uscito e che vale la pena leggere (Con la cultura non si mangia?, edito da La nave di Teseo), perché spiega anche come il motore di sviluppo economico affiancato al settore Cultura possa far leva su altri mondi, lottando contro la crisi del post Covid e contro quella bellica. Un tema che già un altro libro, in forma di pamphlet Con la cultura non si mangia. Falso!, di Paola Dubini (Laterza, 2018) aveva affrontato, iniziando a smontare i luoghi comuni, il disfattismo, l'abbandono.
Un mondo depresso – a giusta ragione, visto ciò che è accaduto – può sollevarsi in tanti modi. Serve investire in danaro, in progetti, in piani di resilienza... ma nulla funzionerà se il «capitale umano» (che definizione brulla!) non si rialza, non si veste ed esce, non ritrova il piacere della condivisione e della socialità. Siamo feriti, ma dobbiamo rialzarci.
Può apparire futile, ma non lo è, compiere alcune azioni: uscire, respirare, guardare il cielo, l'orizzonte del mare. Camminare su un sentiero poco battuto, ammirare gli alberi che fioriscono e che ci insegnano una grande verità: nonostante tutto, c'è sempre una primavera.