I supplenti sono delle parentesi. È proprio tra i banchi di scuola che impariamo a vederli come persone di passaggio, in scadenza, consapevoli che non ricorderemo più le loro facce o quello che ci hanno insegnato. Nella maggior parte dei casi i supplenti entrano in aula con il foglio delle istruzioni lasciato apposta dal docente sostituito: capitoli da terminare, ripasso, compiti, esercitazioni. Qualsiasi cosa affinché la classe non traduca la supplenza come un momento di vacanza.
C’è poco tempo per vedere cinquanta occhi che ti guardano in modo diverso, poco tempo per passare dalla lettura di venticinque cognomi sul registro alla scoperta di venticinque storie diverse.
Sono entrato nella scuola media «Lanfranco» di Modena in un periodo dell’anno scolastico, la ripresa dalle vacanze natalizie, in cui le segreterie erano a caccia di supplenti per colmare i buchi di un sistema in emergenza perenne. Sarebbe stato più semplice insegnare in Puglia, dare una mano nella terra in cui sono nato, ma il nostro sistema scolastico è tutt’altro che semplice. A un certo punto mi sono accorto che la mia dignità aveva tempi diversi rispetto a quelli tipici delle scuole del Sud.
Quindi ho fatto quello che tantissimi precari fanno ogni anno: andare dove c’è il lavoro. Un mese e mezzo di contratto, mi hanno detto, forse prolungabile, ma non possiamo garantire.
Tutto normale, entri in classe e sai che l’unica garanzia è che te ne andrai presto. In sala professori prendi in prestito il cassetto del collega che stai sostituendo, se sei fortunato ci trovi i libri che usano i ragazzi, altrimenti devi arrangiarti a modo tuo. Al primo giorno di lezione gli studenti devono capire che si fa sul serio. Sei consapevole di essere una parentesi, ma devi fare in modo che loro non lo pensino neanche per un momento. A poco a poco conosci i colleghi, rispondi con pazienza alla raffica di domande «ChiSeiChiSostituisciQuantoRimani», provi a capirci qualcosa di più della classe e della scuola in generale e ti diverti ad ascoltare la miriade di accenti che colorano le scuole del nord Italia.
Quando il Regno d’Italia istituì il servizio militare di leva, mandava i giovani ragazzi del Mezzogiorno nelle caserme del nord Italia e faceva altrettanto con i diciottenni che dalla pianura Padana si spostavano a sud di Roma. Questa scelta era parte del difficile progetto di «fare gli italiani». Cari regnanti di un tempo, provate a entrare oggi in una sala professori: è qui che trovate la vera integrazione. A scuola, non nelle caserme.
Ma torniamo al concetto di dignità, perché non di solo scuola è fatta la giornata di un precario. Serve un posto in cui dormire. I pochi alloggi decenti richiedono contratti a tempo indeterminato, affitti non disponibili per brevi periodi e cifre astronomiche da versare tra caparre, commissioni e mensilità. Se sei un docente precario con in mano solo il tuo contratto di supplenza da un mese e mezzo l’unica soluzione è trovare un ripiego di fortuna. E il mio ripiego di fortuna si trovava a 65 chilometri dalla scuola. 130 chilometri al giorno per andare a lavorare. In tutto questo il ministero sblocca nel bel mezzo dell’anno scolastico un concorso per diventare docenti di ruolo che era rimasto sepolto per due anni, ti dà quattordici giorni per prepararlo e ti mette di fronte una prova così imbarazzante da bocciare oltre l’80% dei candidati in tutta Italia. La maggior parte di questi bocciati, il giorno dopo, è tornata in classe a insegnare.
C’è una regola che ogni supplente deve ricordare quando entra in una nuova scuola: mai affezionarsi. Non te lo puoi permettere, sul contratto che hai firmato c’è scritto che te ne devi andare presto. Eppure ogni tanto succede. Perché sei consapevole che di parentesi nella vita ce ne sono fin troppe e magari vorresti regalare qualche colpo di scena in più. I venticinque nomi sul registro diventano venticinque storie, hai poco tempo per conoscerle ma ci provi. Provi a incidere, a metterci la passione che ti ha portato a volere questo lavoro. Senti la bellezza della fatica, senti che succede qualcosa. I ragazzi migliorano e tu migliori con loro.
È il mio ultimo giorno di scuola alla scuola media «Lanfranco» di Modena. Salgo in macchina e nel cofano sistemo quello che mi hanno lasciato i ragazzi prima di salutarmi: due cartelloni, una maglietta con tutte le loro firme, un’agenda nuova, un plettro, un romanzo, una penna con sopra il mio nome, un fumetto. Troppe cose, in una parentesi non ci stanno. E con i loro occhi ancora in testa, si aspetta la prossima chiamata.