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Pasolini 100, il Sud come metafora

 
Raffaele Nigro

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Raffaele Nigro

Il Sud oltre Pasolini: il centenario non alimenti un’immagine sbagliata

Sabato 05 Marzo 2022, 17:26

«Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto». Eppure l’incanto c’è, l’incanto del Mezzogiorno che Pasolini attraversa e scopre nel 1959, viaggiando da Roma a Siracusa, a bordo di una Millecento. Lui da solo, pellegrino e scopritore, come Colombo. Alla ricerca di una bellezza che ritiene sparita dal nord razionale e geometrico, di una bellezza sociale che il dopoguerra ha perso con il miracolo economico, il capitalismo industriale, la nascita di una borghesia grigia e piatta. Pasolini scende verso i luoghi da cui è in atto un esodo biblico e trova l’incanto. Man mano che tocca Napoli, il Cilento, Vallo della Lucania, Maratea, e poi sempre più giù, verso Reggio, Taormina e Siracusa, dove «la bellezza produce direttamente ricchezza… un luogo dove la notte è ancora quella di molti secoli fa». Una ricchezza paesaggistica e antropologica legata al volto arcaico dei popoli, alla semplicità naturale dove il primitivismo di Pasolini finalmente si imbatte nel figlio della natura e dell’autenticità, il mugik di Tolstoj, l’Emilio di Rousseau. È un viaggio a ritroso nella storia e richiama alla mente i bamboccianti, i pittori del Settecento che dal cuore dell’Europa scendevano in Italia per incontrare il mondo dei briganti, delle donne sedute sulle soglie di casa, i contadini che tornavano dalle campagne tra file di asini. Lo scrittore scopre così quella terra del mito che ha incontrato finora soltanto nella letteratura e che lo porta a interrogare le scale dei secoli, la Campania di Boccaccio, il Mediterraneo di Samarcanda e delle Mille e una notte, una Magna Grecia su cui alitano tragedie e miti del mondo classico, gli dei, la poesia, i dialetti, il vocio dei vicoli, la frugalità. Il Sud gli appare regno residuo dell’umano, come le periferie urbane, la provincia abbandonata che diventa metafora delle sue agnizioni letterarie e delle sue fughe politiche. In questo Paese che l’opinione pubblica addita come afflitto da ritardi economici e culturali si conserva una fede impastata di magia malocchio superstizioni credenze. Il corrimano è l’antropologia di Ernesto De Martino, è certamente Carlo Levi, con la sua discesa agli inferi, la scoperta di un mondo lontano dalla borghesia e dal potere centrale. Il Paese del buon selvaggio. Per innamorarsi di un Sud in ritardo, un mondo dove Cristo non è mai entrato, occorreva l’anima di un poeta. Perché solo un poeta può trasferirsi col cuore e con la mente in una civiltà non devastata dalla cultura della sopraffazione e dell’economia ma addormentata in un sonno di genuinità. Non a caso i rapporti con queste terre passano attraverso la mediazione di altri poeti. Me lo ricorda il mio amico Michele Damiani, allora giovane apprendista pittore, quando a metà anni Sessanta, in una conferenza al teatro Piccinni ascoltò un dolce e introverso Pasolini che ricordava non solo De Martino e Levi, ma i rapporti epistolari intessuti con la Puglia di Vittorio Bodini, di Tommaso Fiore, con la voce dei pescatori di tonni riproposta da Domenico Modugno. Un amore che si condensa nella dichiarazione: «Vorrei vivere qui: vivere e morire, non di pace... ma di gioia». Se Cristo non è sceso oltre Eboli, ce lo porterà lui, collocandone la vicenda esistenziale e mitica tra Barile, Massafra, Ginosa, Matera. Gli attori che cerca, secondo ciò che ha riferito Domenico Notarangelo, militante comunista usato come talent scout a Matera, sono uomini dai volti rugosi, consumati dall’atmosfera, contadini e braccianti, gente autentica degna di impersonare gli apostoli. Alla vigilia del Vangelo di Matteo, Pasolini ha visitato la Palestina, ma ha incontrato facce di arabi pasciute e urbanizzate, una terra che non ha più memoria dell’Eden. Matera e i Sassi invece sono la vera Gerusalemme. E i palestinesi di duemila anni orsono sono proprio i braccianti descritti da Levi, da De Martino e da Fiore e che Notarangelo gli ha fotografato e mandato a Roma. Sono il Sud depresso e sottomesso dal fascismo, un «brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita». Questo passo indietro nella storia dell’uomo esprime pienamente il fondamento della filosofia antropologica di Pasolini, l’assunzione del Sud a fulcro della sua visione culturale, narrativa e politica, al modo in cui Stendhal magnificava la Napoli dei lazzaroni. Era una terra collocata oltre la siepe della modernità, affacciata per Pasolini su quel brulichio di vite che trent’anni più tardi Giorgio Bocca avrebbe deplorato come l’Inferno. Ma ognuno di noi ha una visione personale del bene e del male e lo scrittore di Casarsa che aveva amato le periferie e i ragazzi di vita, si era innamorato profondamente del nostro inferno, fino a riconoscerlo come il suo paradiso.

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