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L’amarcord di Carletto Perrone: «Orgoglio per l’ultima rete segnata al Della Vittoria»

 
Giovanni Longo

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Giovanni Longo

L’amarcord di Carletto Perrone: «Orgoglio per l’ultima rete segnata al Della Vittoria»

Il calcio oggi? «Troppo possesso palla, manca la personalità dei giovani nel cercare il dribbling»

Lunedì 09 Settembre 2024, 13:07

Oggi la chiamano “costruzione dal basso”. L'ultimo gol segnato allo stadio della Vittoria, prima del trasloco al San Nicola, porta la firma di Carletto Perrone, finalizzatore di un lungo fraseggio avviato addirittura da “saracinesca” Mannini. «Effettivamente è così... diciamo che siamo stati precursori del calcio moderno...», scherza al telefono uno dei calciatori più amati dai tifosi biancorossi e autore della prodezza che profuma di storia. 21 maggio 1990, finale della Mitropa Cup. Il Bari di Salvemini, mister amatissimo scomparso venerdì proprio nel giorno in cui lo stadio ha compiuto 90 anni, sfida in finale il Genoa. «Nell’ultima partita in quello stadio, nell’ultima mia gara con la maglia del Bari, ho segnato la rete decisiva, avendo pure l’onore di sollevare la coppa con la fascia da capitano. Di meglio non potevo proprio desiderare», ricorda con orgoglio Perrone, padovano, oggi 64enne, ala destra che faceva di tecnica e dribbling le sue armi migliori. Rivedendo le immagini sgranate, colpisce come Perrone concluda l’azione in cui quasi tutti i biancorossi (curiosamente tranne proprio un campione come Joao Paulo) toccano il pallone.

Una fitta rete di passaggi (i primi lenti in difesa, gli altri più rapidi con le accelerazioni impresse da Gerson) inizia nell’area del portiere per poi proseguire con l’ultimo di Terracenere. Fu lui, tagliando la difesa avversaria a mettere Perrone, scattato sul filo del fuorigioco, nelle condizioni di segnare. «Angelo mi fece un lancio alla Pirlo... - ricorda Perrone - Era un giocatore fenomenale. Da lui ti potevi aspettare anche quel tipo di giocata. Complice la difesa piuttosto alta del Genoa, un altro segnale di un calcio di allora più moderno di quello che si possa pensare, mi trovai a tu per tu con il portiere avversario. Era una formazione votata all’attacco la nostra, con tanti giocatori tecnici e di qualità. Che giocate faceva Maiellaro…». Joao Paulo segue l’azione, pronto a ricevere l’assist, ma Perrone non passa e punta la porta. «Agli inizi della carriera da quella posizione avrei tirato forte, magari sparando sul portiere. Invece, no, con l’esperienza sono riuscito a rimanere freddo e a superarlo in uscita con un colpo sotto. Sono sicuro che anni dopo Totti ha studiato il mio scavetto prima di provare il suo... ». Peccato che quella coppa sollevata da Perrone (il capitano Terracenere fu sostituito e la fascia passò a Carletto) sia finita chissà dove. «Fisicamente o non fisicamente la sentiamo tutti nostra, spero davvero che Bari possa aggiungere altro nella sua bacheca».

Tre le stagioni in cui Perrone ha indossato la maglia biancorossa, lasciando il segno. Ha dato moltissimo al Bari e i tifosi hanno ricambiato. «A ricordarmi dei 90 anni dello stadio della Vittoria... è stato il mio ginocchio infortunato, in questi giorni particolarmente dolorante: subii la rottura del crociato e all’epoca si rischiava la fine della carriera. Otto mesi fermo, con i primi 100 giorni in cui non potevo poggiare il piede a terra. I tifosi furono eccezionali. Vivevo a Poggiofranco e avevo l’abitudine di prendere i cornetti al bar Moderno per la mia famiglia. Durante la convalescenza ogni giorno mi lasciavano le brioche dietro la porta di casa... Mi coccolavano, sentivo intorno ma me un affetto incredibile. Ricordo ancora il mio ritorno in campo dopo il grave infortunio, con l’ovazione dei tifosi, tutti in piedi ad applaudire: uno dei momenti più emozionanti della mia carriera. Come fai a sdebitarti con tifosi del genere. A distanza di 35 anni li ringrazio ancora».

Bari, dunque, è rimasta nel cuore. Insieme all’Atalanta dove Perrone ha vissuto una seconda giovinezza. «Ancora oggi vedo due risultati prima degli altri: quello del Bari e quello dell’Atalanta. Ci sono rimasto malissimo quando Pavoletti ha infranto il sogno promozione». Perrone, appesi gli scarpini al chiodo, allena tra i dilettanti, vantando anche una esperienza nello staff tecnico del Novara. «Tra le esperienze più belle, quella in Portogallo e quella sulla panchina della Virtus Padova, calcio femminile. Al momento sono senza squadra, spero di tornare ad allenare presto. Se da calciatore odiavo la panchina, da allenatore mi manca…». A proposito di panchina, ecco il suo ricordo di mister Salvemini: «È stato molto importante per la mia carriera. Una persona molto perbene ed educato. Sul pian tecnico e tattico la pensavamo diversamente ed entrammo in contrasto. Sono contento che anni dopo, da uomo di sport qual era, parlammo e ci chiarimmo».

Ma oggi, c’è ancora spazio per calciatori alla Perrone? «La differenza nel calcio la fanno i giocatori che nell’uno contro uno mettono in inferiorità numerica l’avversario. Peraltro ai miei tempi si faceva molta più fatica. Oggi le regole favoriscono gli attaccanti: con un fallo da dietro un difensore rischia l’espulsione. Noi pendevamo certe legnate… Il problema oggi è che ci sono pochi i giocatori che hanno la personalità di tentare il dribbling finale, magari sulla tre quarti tornano indietro e scaricando il pallone in difesa. Il tiki-taka a me non piace. Quando alleno dico ai ragazzi che negli ultimi 20 metri bisogna puntare la porta: tutti sono capaci di tornare indietro. Movimento, tagli, dribbling: questo è il calcio. Il possesso palla è di una noia mortale, preferisco vedere Sinner». Come dargli torto.

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