di GIUSEPPE DE TOMASO
Se in tv davanti a Barbara D’Urso, il capo della Lega risponde che «nulla è impossibile» a proposito l’alleanza con il M5S, significa che l’inedita coppia Di Maio-Salvini sta già lavorando di buona lena per dare vita al nuovo governo. Se così non fosse, Salvini avrebbe liquidato con un sorriso ironico o con una plateale scrollata di spalle la domanda della regina di Canale 5. Se non lo ha fatto, è perché l’inedito tandem Lega-M5S rappresenta la soluzione più a portata di mano dopo lo stallo parlamentare provocato dal voto del 4 marzo.
I due, Di Maio e Salvini, sono gli indiscussi vincitori (se non i trionfatori) della tornata elettorale. Se si mettessero insieme non avrebbero bisogno di altri sostegni. Il che li colloca in prima fila per la formazione del prossimo esecutivo.
Ma quanto potrebbe durare un eventuale governo di grillini e leghisti? Diciamo che, all’estero, l’asse Di Maio-Salvini farebbe felice lo zar russo Vladimir Putin, vicino ai movimenti populistici e anti-europeisti spuntati nel Vecchio Continente. Desterebbe più di una preoccupazione, invece, a Berlino e a Parigi dove crescono i timori per i sentimenti anti-comunitari.
E in Italia? Forse gli elettorati di M5S e Lega non farebbero salti di gioia all’annuncio dell’accordo. Il M5S ha succhiato voti al Pd. La Lega ha eroso consensi a Forza Italia. Il che li pone in una condizione, se non antagonistica, perlomeno conflittuale. Certo, non mancano i punti in comune tra Di Maio e Salvini ma per le rispettive basi elettorali i due movimenti restano distanti come l’Australia e il Polo Nord.
E allora? Non è necessario consultare un mago per prevedere che un matrimonio tra M5S e Lega avrebbe vita breve. Non solo per le difformità programmatiche tra le due formazioni, quanto per la natura stessa del sistema elettorale proporzionale.
La vita media dei governi, durante la Prima Repubblica (finita nel 1994), ha oscillato tra i nove e dieci mesi. Non appena il presidente del Consiglio e i suoi ministri prestavano giuramento al Quirinale, cominciava il safari contro il governo, mentre i retroscenisti più arditi già azzardavano la data del colpo letale. Le crisi di governo erano così ricorrenti, che nessuno si stupiva o si preoccupava più di tanto. Del resto, cambiavano i ministri, nel senso che ci si scambiava il posto, ma il quadro politico restava immobile come una piramide, idem le maggioranze.
Alle corte. La legislatura testè iniziata può dare luogo a infinite variabili: ritorno immediato alle urne, governo tecnico, governo di scopo, governo M5S-Lega, governo di tutti e via elencando. Ma una cosa è certa. Anche se ci fosse stata la possibilità di dar vita a una maggioranza omogenea, il fantasma della crisi di governo avrebbe inseguito l’inquilino di Palazzo Chigi dal primo dei suoi giorni. Le crisi di governo stanno alla legge proporzionale come Mauro Icardi e Ciro Immobile stanno al gol. Figuriamoci che cosa potrebbe accadere in presenza di una maggioranza non omogenea, costruita per calcoli di comunicazione mediatica e di convenienza partitica. Ripartirebbe il gioco al massacro, assai praticato in piena Prima Repubblica, con un supplemento di rischio in più, oggi, rispetto al passato. Un tempo, per ogni esecutivo che cadeva c’era una rete di protezione (il quadro politico solido) pronta ad attutire gli urti. Stavolta, non ci sarebbero più ammortizzatori. La crisi di governo coinciderebbe con un salto nel buio.
Fossimo nei panni di Di Maio, ma anche dello stesso Salvini, saremmo più cauti di un gatto nell’affrontare a cuor leggero l’avventura di governo. E faremmo bene a mettere in conto la caducità del nostro esecutivo, che difficilmente potrebbe festeggiare il suo compleanno.
Le elezioni e il post-elezioni solitamente provocano un’insidiosa euforia tra i vincitori. I visi tristi degli sconfitti, le adulazioni dei postulanti e i corteggiamenti da parte di ex avversari ed ex rivali, producono, in chi vince, una strana sensazione, un senso di strapotere, di invincibilità e di assoluta discrezionalità.
Ma questo stato di felice invulnerabilità, degno di Zeus sull’Olimpo, non è vitalizio. I guai spuntano sùbito, con le prime nomine, con la scelta di ministri e sottosegretari. I mal di pancia degli esclusi emergono piano piano. Poi, ogni no alla richiesta di un compagno di strada contribuisce a irrobustire la legione dei nemici in casa. Che, in effetti, sono i veri sicari di ogni governo. Persino il fascismo cadde per una congiura interna al regime, non per uno scossone esterno. Tutti i governi della Repubblica sono caduti per gli sgambetti di sostenitori delusi.
Chiunque sarà il prossimo presidente del Consiglio, farà bene a studiare ascesa e discesa dei suoi predecessori. Si renderà conto che tutti i sogni muoiono all’alba, che vincere le votazioni è assai più semplice del gestire il dopo-votazioni, cioè il governo, e che in una Repubblica parlamentare caratterizzata dal sistema elettorale proporzionale, chi vince perde e chi perde vince. Auguri.
Giuseppe De Tomaso
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