OSCAR IARUSSI
«La stampa serve chi è governato, non chi governa». E subito dopo... «Sai come mio marito chiamava le pagine dei quotidiani? “Le prime bozze della Storia”». The Post del settantunenne Steven Spielberg, da ieri nelle sale italiane, è più che un film sulla libertà di espressione. È un inno alla stampa di vecchio stampo, è una sinfonia dedicata al tempo delle rotative e delle linotype, remoto ma neanche tanto, giacché in fondo stiamo parlando del 1971. Il tempo dei caratteri mobili come le sigarette tra le labbra dei cronisti, e della concorrenza spietata ma leale fra le testate. Il giornale in questione è «The Washington Post», oggi controllato da Jeff Bezos (il padrone del sito per il commercio online «Amazon.com»), che l’ha acquistato pochi anni fa dagli eredi della famiglia Graham, proprietaria fin dai primi anni Trenta.
La protagonista del film è Katharine Meyer (1917-2001), vedova di Philip Graham, interpretata da una superlativa Meryl Streep in predicato per l’ennesimo Oscar (ventuno nomination durante la sua carriera e tre statuette vinte). Mentre la direzione era affidata a Benjamin «Ben» Bradlee, scomparso ultranovantenne nel 2014, che, guidandolo dal 1968 al 1991, trasformò il «Post» - tradizionalmente liberal e vicino ai Democratici - in un giornale dal prestigio e dalla diffusione ben più ampi rispetto alla sua storia di testata «regionale» radicata nel Maryland e in Virginia. Nel ruolo di Bradlee sullo schermo c’è Tom Hanks, alla sua sesta prova con Spielberg, perfetto camaleonte nell’incarnare i tic, le ossessioni, l’egotismo e la generosità di quel genere di capitani coraggiosi.
Già, il coraggio. The Post esprime il dilemma in cui viene a trovarsi Katharine, cioè l’editore del quotidiano. Pubblicare una notizia «sensibile» o non pubblicarla? Nel primo caso, si metteva a rischio la quotazione in Borsa del «Post», in atto in quel frangente. Nel secondo, si garantiva - almeno secondo gli avvocati e i consiglieri - il business dell’azienda di famiglia e quindi anche il destino dei giornalisti e dei tipografi, seppur sacrificando una quota della libertà di stampa.
Non si tratta dello scandalo Watergate, la storica inchiesta del «Washington Post» condotta da Bob Woodward e Carl Bernstein, che costrinse il presidente Richard Nixon alle dimissioni, e sulla quale Alan J. Pakula girò Tutti gli uomini del presidente. Il Watergate è del 1974, qui invece si racconta della pubblicazione dei «Pentagon Papers», che nel ’71 creò le prime serie difficoltà a Nixon, due anni dopo l’elezione alla Casa Bianca. Le carte segrete del Pentagono, trafugate da un giornalista del «New York Times», palesavano che Nixon e i suoi predecessori Eisenhower, Kennedy e Johnson, dalla metà degli anni Cinquanta in avanti, avevano mentito sistematicamente e continuavano a dire bugie sull’intervento in Vietnam, nascondendo all’opinione pubblica complotti politici e insuccessi militari. Il tutto mentre nel sud est asiatico morivano migliaia di giovani americani ogni anno.
Nel film il «Post» sembra fuori gioco rispetto alla notizia, sbandierata in prima pagina dal «New York Times», appunto. Ed appare in affanno o in imbarazzo rispetto al «buco» (lo scoop altrui) a causa dei rapporti confidenziali tra Katharine Graham e Robert McNamara (Bruce Greenwood), ex segretario alla Difesa, coinvolto nella vicenda. Per non parlare del sodalizio quasi fraterno che aveva legato Ben Bradlee a John Fitzgerald Kennedy, «Jack» per gli intimi. Eppure un po’ alla volta, grazie alla caparbietà del direttore e della redazione e alla scelta della proprietà, il «Post» recupera e surclassa la testata-rivale. Così, entrambi i giornali si ritrovano sul banco degli imputati in tribunale, accusati di minare la sicurezza nazionale e di altre colpe non meno gravose...
Fin qui la trama. Ma The Post, candidato all’Oscar per il miglior film, riserva un fascino speciale grazie alla ricostruzione non meramente «scenografica» degli ambienti. È un concerto visivo per macchine da scrivere, che fa ripensare al ticchettio orchestrato da Mario Nascimbene in Roma ore 11 di De Santis. E pagine, inchiostro, nastri trasportatori delle copie fresche di rotativa, pacchi di giornali lanciati all’alba sull’asfalto bagnato davanti alle edicole, riportano alla mente il Bogart di L’ultima minaccia: «Cos’è questo rumore?» – «È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente».
Struggente? Forse. Il finale in particolare commuove. Tuttavia è razionale e realistico nel mostrare, senza cedimenti nostalgici, il sistema di pesi e contrappesi, di poteri e di controllo, che garantisce l’equilibrio di una democrazia. Un sistema in cui le élite politiche, editoriali e giornalistiche, sono fiere di essere tali senza albagia (vedi le scene familiari di «mamma Streep»), connesse tra loro da vincoli culturali e amicali, persino partecipi di lobby comuni... Ma infine la stampa non rinuncia ai princìpi per non snaturarsi, per non morire. In tal senso, The Post parla al presente di classi dirigenti troppo pavide per contrastare il proprio declino sotto i colpi del populismo. Da non perdere.