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Quanta ipocrisia sul danaro tra vizi privati e pubbliche virtù

 
Quanta ipocrisia sul danaro tra vizi privati e pubbliche virtù

Giovedì 05 Novembre 2015, 11:14

03 Febbraio 2016, 07:54

BARI - «Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa». Sono parole pronunciate da Paolo VI (1897-1978) il 29 giugno 1972 in occasione della Festa dei santi Pietro e Paolo. Papa Montini era ossessionato dal fantasma del demonio. Era convinto - ripeteva - che dopo il Concilio sarebbe arrivata una giornata di sole per la storia della Chiesa. «È venuta invece - diceva il Papa - una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza...». Fra i piani di Satana, lasciava intendere il Pontefice, c’è l’annientamento della Chiesa, ma Satana - osservava - non riuscirà mai nel suo intento. Del resto - aggiungeva con una punta di affilatissima autoironia - se non sono riusciti i religiosi in duemila anni a distruggere la Chiesa, non ci riuscirà nessuno. 

Era attraverso il denaro (lo sterco del demonio, nella definizione del Santo d’Assisi) che il fumo di Satana, per usare l’espressione montiniana, si era introdotto nei sacri palazzi con l’obiettivo di annientare la Chiesa? Chissà. Chissà a chi si riferiva Paolo VI. Forse più che al denaro il Papa, che completò il Concilio, pensava al Potere, all’ossessione diabolica del Potere, anche se Potere e Ricchezza spesso avanzano a braccetto.

Ma si può vivere facendo a meno del denaro? Molti studiosi hanno sognato, e progettato, una società senza quattrini. Ma tutti hanno dovuto arrendersi. O sottoforma di moneta riconosciuta dagli Stati o sottoforma di baratto accettato dalle singole comunità, uno strumento che regoli gli scambi fra le persone è non solo necessario, ma insostituibile. Come si potrebbe stabilire il valore di un bene o di un servizio senza un punto di riferimento come il denaro? Quale strumento potrebbe poi rivelare lo stato di abbondanza o di scarsità di un prodotto se non il denaro? In tempi lontani il pecus, cioè il denaro, corrispondeva al bestiame, inteso, appunto, come soggetto-oggetto di scambio. Successivamente sono spuntati i metalli e più tardi le banconote.

Senza denari non si può fare nulla. Non possono fare nulla gli Stati, non possono fare nulla le famiglie, non possono fare nulla i singoli. Eppure l’indice di sgradimento del denaro contende proprio al diavolo il gradino più basso della scala mondiale della reputazione. Sono in pochi a parlare bene dei quattrini. Quasi tutti ne parlano male, salvo poi scatenarsi come furie per accumulare ricchezze su ricchezze. Anche parecchi uomini di Chiesa - non tutti, ci mancherebbe - non sono insensibili al fascino del dio quattrino, come dimostrano le rivelazioni di questi giorni sulle vicende vaticane, e come aveva già notato il filosofo Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu (1689-1755): «È assai sorprendente che le ricchezze degli uomini di Chiesa siano originate da princìpi di povertà».

Ma, ecco il punto, un conto è la ricchezza privata, un conto è la ricchezza delle istituzioni che si rappresentano. I Pontefici del Rinascimento non erano un modello di moralità, ma senza la loro bramosia di onori e fastosità, Michelangelo (1475-1564) non avrebbe affrescato la Cappella Sistina e Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) non avrebbe realizzato capolavori architettonici e scultorei, grazie ai quali l’Urbe può vivere tuttora di rendita. Una Chiesa povera non avrebbe potuto ingaggiare i più grandi maestri dell’arte rinascimentale, né avrebbe potuto finanziare opere di socialità e interventi di solidarietà. Anche oggi, i termini della questione non sono cambiati gran che. Senza risorse economiche, è impossibile promuovere l’assistenza, aiutare chi vive in miseria. Del resto se San Francesco (1182-1226) rappresenta la purezza assoluta della povertà, lo spirito evangelico più profondo, San Martino (316-397) rappresenta la cultura del dono da parte di chi è benestante, di chi vede il prossimo in difficoltà e gli regala metà del proprio mantello. Due modi di fare carità, ma, immaginiamo, altrettanto apprezzati al cospetto del Signore. Del resto, la storia della Chiesa non è una fabbrica di anatemi contro il denaro. Non lo scomunica Gesù Cristo, non lo scomunica una santa del calibro di Teresa d’Avila (1515-1582), che anzi in uno dei suoi motti così diceva di sé: «Teresa da sola è una povera donna, Teresa con la grazia di Dio è una forza, Teresa con la grazia di Dio e il denaro è una potenza».

Piuttosto. È l’ipocrisia il peccato più grave di quanti, anche nella Chiesa, si lasciano andare alla comoda alternanza tra vizi privati e delle pubbliche virtù. È l’ipocrisia di chi, per citare Montesquieu, in pubblico professa i princìpi di povertà, ma in privato si attiva per procurarsi o comprare l’attico più spazioso e l’auto più fascinosa. È l’ipocrisia di chi, in politica, ragiona - per dirla con Ennio Flaiano (1910-1972) - con il cuore a sinistra e il portafogli a destra.

Non è, in verità, una contraddizione di oggi o di ieri. È una contraddizione di sempre. L’esempio più fulgido (diciamo) arriva da Karl Marx (1818-1883), il filosofo del comunismo e della fine del capitalismo. In casa, da padre di famiglia, il pensatore più celebre dell’Ottocento si comportava come il genitore più retrivo e calcolatore, attento più al portafogli dei futuri generi che alla felicità coniugale delle figlie. Matrimoni d’amore? Macché. Evviva i matrimoni di interesse. Salvo affermare il contrario fuori casa.

Conclusione. Lucrare sui soldi che non ti appartengono è disdicevole e illegale. Ma lucrare sui soldi degli altri, inondando di improperi il sistema basato sul denaro è ancora più riprovevole e scandaloso. Un vero peccato mortale. A meno che l’anatema contro il denaro serva, fariseisticamente, a mettersi in pace con la coscienza davanti al grande pubblico catodico che oggi detta legge. 
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