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La nuova corsa di Matteo tra europeismo e sovranismo

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Brindisi, bagno di folla per Salvini: in Puglia non salteranno posti di lavoro

Salvini a Brindisi

In principio fu l’ingresso (inatteso) nel governo Draghi

Lunedì 05 Luglio 2021, 15:50

Bari - In principio fu l’ingresso (inatteso) nel governo Draghi. Per non lasciare il boccino a Partito democratico e Movimento 5 Stelle, per contare di più, per tutelare i ceti produttivi del Nord in fregola di riaperture e rimozione dei vincoli. Poi quel naso infilato, per un attimo, in casa del Partito popolare europeo (Ppe) e l’idea di una federazione con Forza Italia.

Nel mezzo, il giganteggiare di Giancarlo Giorgetti - nel frattempo diventato ministro - e Luca Zaia, maggiorenti della corrente «tedesca» ed europeista della Lega, quella a cui il sovranismo è sempre andato un po’ di traverso. E così le foto con la felpa «Basta euro» sono diventate un ricordo di gioventù, un po’ come i vecchi poster in cameretta, mentre gli scritti corsari di Borghi e Bagnai sono rapidamente ingialliti in testimonianze dei ruggenti tempi che furono.

La metamorfosi di Matteo Salvini si è consumata in perfetto stile kafkiano: ti addormenti in un modo e ti svegli in un altro. Il problema però è che pure gli elettori si sono addormentati in un modo ma, al risveglio, non sono cambiati affatto.

Da cui il più classico «scollamento» tra il vertice cangiante e la base spaesata con l’allegra transumanza di voti verso Fratelli d’Italia e quella rincorsa forsennata (e non più utopistica) di Giorgia Meloni alla leadership della coalizione.

Una emorragia troppo vistosa per non correre ai ripari. E così Matteo s’è rimboccato le maniche dell’«obamiana» camicia bianca e ha corretto il tiro, inaugurando una sorta di «via media» tra i due estremi. La lealtà al governo Draghi resta, così come l’ipotesi di una federazione con i berluscones. Ma il leader leghista, sparigliando il gioco, si è riavvicinato improvvisamente al leader ungherese Victor Orban e proprio nella fase in cui quest’ultimo è sferzato un giorno sì e l’altro pure dai benpensanti di Bruxelles per le sue leggi contro la propaganda omosessuale. Una sbandata d’altri tempi? No, affatto, nulla di improvvisato.

Semplicemente, il «Manifesto dei sovranisti europei» era un vessillo da non lasciare alla sola Meloni. E dunque Salvini l’ha firmato, insieme alla Le Pen e al leader magiaro, per il disappunto di Giorgetti e degli altri filo-teutonici del Carroccio. Un messaggio forte, una sorta di atto primo, a cui ne è seguito subito un secondo dalle latitudini lucane e pugliesi: il Capitano si è ributtato fra la gente per riprendersi la piazza. Alla sua maniera, naturalmente, tra selfie, gazebo e voli dell’angelo a favor di telecamera. Si torna alle vecchie abitudini, insomma, forti di un «aggancio», quello dei sei quesiti referendari sulla Giustizia, che ingolosisce anche Forza Italia ma che permette ai leghisti di alzare i toni dello scontro senza strappare tutta la tela fin qui pazientemente cucita.

L’operazione è furba ma efficace e mette a valore quello che il politologo Marco Revelli definiva il populismo «dentro e contro». Un principio, a suo tempo, applicato al renzismo che oggi torna buono per rappresentare anche le strategie dell’altro Matteo. È il vecchio binomio della «lotta» e del «governo» i cui bilanciamenti sono sempre roba da alchimisti della politica. Dov’è il punto esatto di equilibrio? Difficile dirlo, ma la regola impone di spostarsi verso il governo se si è troppo di lotta e verso la lotta se si sta diventando troppo di governo cioè, detta volgarmente, se si sta finendo per assomigliare un po’ a tutti gli altri. È questo secondo passaggio quello che Salvini sta mettendo in scena in questi giorni saltando da una piazza all’altra tra applausi e megafoni.

È il ritorno della Lega «rampante» e stradaiola con tanto di dedica a chi dava per morto il sovranismo, narcotizzato dalla cura Draghi. La scalata della Meloni e la voglia di rivalsa di Salvini dimostrano che quella stagione non è chiusa e che il «conservatorismo responsabile» non gira poi tanto in tempi di crisi pandemiche, recessioni economiche e battaglie campali sui diritti. Non di sola lotta muore l’uomo, ma anche di governo.

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