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Leonardo Petrocelli
08 Aprile 2021
Viaggia sulle frequenze dell’emergenza come il problema dei problemi. E, tra un decreto e una polemica, probabilmente lo è. La scuola è oggi al centro dello schizofrenico gioco dell’apri-chiudi nazionale (e regionale) con la spiacevole sensazione che si sia tutti ben lontani dal mettere un punto alla questione.
Il guaio è che, in questa storia, hanno ragione più o meno tutti. La didattica a distanza, dad o ddi secondo il demenziale gioco degli acronimi, si è mostrata per quello che è: la negazione totale di ogni corretto processo di apprendimento, l’esaltatore per eccellenza delle disuguaglianze (quanti pc ci sono in casa? come va la connessione?), il grande mietitore di ogni spinta alla sacrosanta socializzazione.
Oltre che, fattore non irrilevante, il parco giochi di hacker, disturbatori, bulli, molestatori e di chiunque usi il web come autostrada delle proprie distorsioni (l’ultima moda si chiama zoom booming, una sorta di irruzione vandalica durante le lezioni). D’altra parte, però, è anche vero che tenere tutto aperto, in ogni ordine di classi ed età, avrebbe avuto fatalmente un effetto moltiplicatore sul contagio, in virtù di tutti gli addentellati ingovernabili, dal trasporto pubblico ai raduni spontanei in entrata e in uscita. La via di mezzo, scelta dal Governo centrale, è quella di una apertura ragionata che coinvolga innanzitutto gli studenti più giovani, fino alla prima media (nessuno ce ne voglia se ci rifacciamo alla definizioni in voga quando il mondo era più o meno un posto per esseri senzienti).
Ma qui casca la polemica innescata da molti comitati: perché i bambini sì e gli adolescenti no? Anche i ragazzi un po’ più grandicelli hanno le stesse esigenze dei «colleghi» più piccoli. E qui bisogna essere sinceri: i bambini fino a 10-11 anni non possono rimanere soli a casa e i genitori non sanno dove piazzarli con tutto il codazzo di difficoltà organizzative e familiari. Non ci sarebbe nulla di male ad ammetterlo senza farsi schermo della retorica, sempre mortifera, sulla scuola bene comune e palestra di vita con bambini messi a favor di telecamera a rimpiangere interrogazioni e note sul registro. Su questo ventre molle del problema giocano le disposizioni di Michele Emiliano che battono, provvedimento dopo provvedimento, sull’autonomia genitoriale: «scegliete voi ma, se possibile, teneteli a casa», è la linea pugliese. Nonostante i rimbrotti di Draghi e la comodità del «non scegliere» c’è del senso nel ragionamento, ma c’è anche del caos. Anzi, un caos nel caos.
Alla fine della giostra la soluzione non ce l’ha nessuno e a poco servono gli esperimenti avanguardistici come quelli di Bolzano con i test obbligatori per chi va in presenza. Bisogna ragionare sulla realtà. Ma sfortunatamente, e siamo alla «ciccia» del problema, la scuola più di altri comparti soffre l’andamento a fisarmonica che pare l’unico buono per contenere la pandemia senza desertificare il Paese. Il circolo vizioso dell’apri-chiudi-apri se è deleterio per negozianti e ristoratori è mortifero, a maggior ragione, per processi - come l’apprendimento o la socializzazione - che esigono una serrata continuità. Forse sarebbe stato meglio sbarrare tutto subito, decretando la morte civile dell’anno scolastico fin dall’inizio, attivando poi un reticolato di bonus e controbonus per sostenere il disagio familiare. Ma ormai la stagione è andata come non doveva andare, a spizzichi e bocconi, un po’ dentro e un po’ fuori. E c’è da giurare che si continuerà così finché il caldo e i vaccini non faranno il loro ponendo fine (si spera) al più tragico dei mali venuti fuori dal vaso di Pandemia: l’incertezza. Leopardi definiva «il forse» la parola più bella del vocabolario italiano «perché non cerca la fine ma va verso l’infinito». Appunto. Un infinito delirio.
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