Facciamo parlare l’Istat. A fine dicembre 2020 il reddito delle famiglie italiane era calato, in media, del 6 per cento. Viceversa la montagna di risparmi sui conti correnti bancari era salita a livelli siderali, sfiorando quota 1700 miliardi. Figuriamoci quali vette ha toccato adesso la liquidità nelle banche, dopo altri due mesi di paura a causa della pandemia.
Domanda. Chi investe? Pochi, pochissimi spiriti coraggiosi. Il grosso dei risparmiatori e degli agenti finanziari preferisce stare alla finestra, vuoi per il timore di sbagliare investimento in un periodo così incerto, vuoi per l’effetto seduttivo determinato da alcune misure assistenziali.
Ora. Nessuna persona sana di mente pretenderà mai uno sforzo finanziario suppletivo da parte di chi versa in condizioni difficili, al timone di imprese e attività in piena tempesta. Ma la crisi non ha colpito tutti alla stessa maniera. Alcune aziende hanno visto, invece, decollare produzione, vendite e fatturati. Idem alcune branche professionali. Eppure, nonostante la pioggia di quattrini piovuta su di loro all’improvviso, i possessori di cotanta liquidità stanno fermi, senza rischiare un centesimo. Motivo? Lo Stato lascia intendere che anche per loro è in arrivo una vagonata di aiuti (euro) e che, di conseguenza, non è il caso, per nessuno, di mettere a repentaglio le proprie sostanze finanziarie. Il risultato è davvero paradossale: anche parecchie aziende (per fortuna, non tutte) che stanno bene, non scuciono dieci euro manco morte e si mettono in lista d’attesa confidando in un nuovo Babbo Natale (lo Stato più le sue diramazioni).
Non è la prima volta che il fenomeno si verifica, e non sarà neppure l’ultima. Ma mai come adesso si sarebbe potuto o si potrebbe utilizzare questa inattesa abbondanza di capitale (per investimenti) a beneficio di progetti e opere di importanza strategica. Il che si potrebbe trasformare, tra l’altro, in un’altra preziosa opportunità di rafforzare e ammodernare il mercato finanziario nazionale e internazionale.
Invece. Niente. Neppure per idea. Quieta non movere. Mota quietare. Gli è che quasi tutti confidano e scommettono sul sostegno pubblico. Vi puntano anche coloro che potrebbero tranquillamente farne a meno perché vestiti di euro dalla testa ai piedi. Il guaio è che lo Stato centralizzatore lascia credere a tutti che conviene spendere i soldi degli altri, anziché i propri. Lo fa assecondando i desideri di ciascuno ora attraverso proclami rumorosi ora attraverso garanzie silenziose. È come se il mercato automobilistico fosse sempre condizionato e illuso, sull’onda degli annunci governativi, dalla prospettiva di nuovi incentivi per la rottamazione. Nel frattempo, che succede nelle concessionarie? Tanto per cominciare, nessuno ordina più un’auto nuova. Tutti si dicono in attesa della fatidica ora X del maxisconto. Conseguenze: l’inizio di una forma di depressione (aggravata da un’annuncite cronica e corriva).
Ma all’origine di questa insidiosa e controproducente strategia della dilazione (degli investimenti privati) non vi è solo il ragionamento, o meglio il calcolo di cui sopra (chi me lo fa fare a rischiare i soldi miei se lo Stato ha promesso che a breve mi riempirà di finanziamenti?). Vi è soprattutto la singolare convinzione che lo Stato assistenziale, sia quando si rivolge alle imprese sia quando si apre ai dipendenti, debba obbedire a un dovere risarcitorio nei confronti di chiunque incontri per strada. Ma uno Stato che funzioni, un welfare che non voglia sprecare il denaro dei contribuenti, non deve sfornare risarcimenti a oltranza, semmai deve impegnarsi a creare, a garantire condizioni di crescita e sviluppo per tutti. Solo così il ruolo dello Stato, e del welfare medesimo, ha senso. In caso contrario, lo Stato-mamma diventa la parodia, la caricatura di se stesso. In caso contrario, lo Stato alleverà per sempre una vasta fascia di popolazione perennemente in lista d’attesa, a cominciare dalle imprese restie ad aprire il proprio portafogli per finire alle persone orientate a farsi deresponsabilizzare e pure, avrebbe aggiunto il comunista atipico Giorgio Amendola (1907-1980), a farsi colonizzare.
Lo Stato deve perciò dare il buon esempio. Come? Evitando di dare tutto a tutti e spronando chi non ha sofferto mezzo minuto per la crisi economica a dare il massimo per evitare che i suoi risparmi siano congelati in forzieri di rendite improduttive. E, soprattutto, lo Stato deve disincentivare chi immobilizza i suoi soldi sui conti correnti, rassegnandosi, di fatto, solo agli investimenti decisi, nel settore pubblico, dal potere politico. E sperando, sempre questi pianificatori dell’immobilismo, in un fiume inesauribile di ristori e rimborsi vari.
Ecco il punto. Le misure a sostegno delle imprese azzoppate dal Covid sono necessarie e sacrosante.
A condizione, però, che vadano a quelle attività effettivamente colpite da questo tsunami infettivo. Gli aiuti, però, possono trasformarsi in un’arma a doppio taglio qualora siano distribuiti a casaccio e, soprattutto, qualora contribuiscano a radicare un’idea piuttosto diffusa nel capitalismo italico: per gli investimenti si utilizzano soltanto i capitali messi a disposizione dallo Stato o dal sistema creditizio, non i propri quattrini.
Se questo retropensiero, già praticato nel sistema, facesse nuovi proseliti, i problemi dell’economia italica si aggraverebbero pesantemente. Con una prospettiva (un desiderio inconfessato, ma sospirato) da infarto per i tifosi del lavoro e della crescita ad esso collegato: tutti mantenuti dallo Stato, ricchi e poveri.
Conclusione. Bisogna evitare che il mantra dei ristori e dei risarcimenti futuri alimenti le illusioni di quanti non ne hanno diritto. Bisogna evitare che il tam tam su questi incentivi svolga una funzione diseducativa in materia di rigore economico, e dissuasiva, scoraggiante, sul piano delle iniziative produttive e imprenditoriali.
Il risparmio è una virtù sublime. Ma se nasconde il calcolo di voler intercettare prebende pubbliche per eludere l’impegno e il rischio personali, allora no. Allora anche la virtù può generare disastri.