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Leonardo Petrocelli
18 Febbraio 2021
«Oggi l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere» ha ammonito il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel suo discorso al Senato. E giù interminabili applausi, da ogni angolo dell’Aula. Ma quello che vale oggi, varrà anche domani alla prova dei fatti e degli imprevisti?
Al momento, il nuovo governo nazionale voluto dal Colle, con il petto gonfio di spirito repubblicano, è agli esordi della propria «luna di miele» con i principali attori della politica italiana. Tutti sono pronti a collaborare, a rimboccarsi le maniche e a sporcarsi le mani, a dialogare con il vicino di scranno che, fino a poco tempo fa, era l’arcinemico di turno. È una specie di idillio dei nastri di partenza. E tuttavia quello che attende i nostri non è uno sprint di cento metri ma una maratona di parecchi chilometri e non è detto che lo spirito decoubertiniano («l’importante è partecipare») si conservi falcata dopo falcata. Draghi, da parte sua, ha due grandi fortune: la prima è che la maggioranza è larga, larghissima.
Se qualcuno, per qualche capriccio, inizia a puntare i piedi su qualche sciocchezza accessoria o peggio minaccia di accomodarsi fuori nessuno dovrà darsi pena di fermarlo perché la baracca resterà in piedi lo stesso. Una perdita è sopportabile. Niente più strappi alla Renzi, per capirci. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile. La seconda è che le costruzioni partitiche poggiano ormai su fondamenta di sabbia. Prive di autorevolezza si offrono agli eventi con un dna integralmente negoziabile: tutto può essere messo in discussione, ricontrattato, negato. Dal punto di vista di un banchiere europeista, poteva sembrare una sfortuna essere piombati sulla scena politica italiana al tempo di populismi e sovranismi, ma non lo è. Diversamente dai tempi di maggiore moderazione, ed è un paradosso, nell’epoca degli estremismi tutto è scritto sull’acqua. E dunque, un esempio a caso, si può transitare dall’antieuropeismo più aggressivo alla corte di Mr. Euro senza troppi patemi d’animo e senza fornire chissà quali spiegazioni agli elettori. «Il senso di responsabilità» e «il bene del Paese» sono le chiavi alchemiche di qualunque composto. Nonché la giustificazione per rimangiarsi tutti i «mai» ed i «mai con» pronunciati finora con risoluta determinazione.
Solo rose e fiori, dunque? Non esattamente perché, passato questo mix di incanto iniziale e timore reverenziale, potrebbero cominciare ad arrivare i problemi. E i problemi hanno due nomi. Il primo è quello degli imprevisti, degli eventi che non ti aspetti e che non hai potuto mettere a fuoco in consultazione. Nel tempo delle pandemie, degli attentati terroristici e delle bolle finanziarie è bene non dar troppo il futuro per scontato. Il secondo, sono i sacrifici quelli che, comunque, gli italiani saranno chiamati ad affrontare sia in termini di sicurezza sanitaria (altri lockdown in arrivo?) che di ripresa economica. Il Paese è stanco, prostrato, arrabbiato, ferito a morte da una crisi bicefala e senza fine. Se il clima dovesse farsi pesante, per una qualunque ragione, inizierebbero i problemi e i distinguo. La storia del governo Monti, pur nato fra gli applausi, è illuminante: Silvio Berlusconi, che pure aveva sottoscritto e votato tutti i provvedimenti del bocconiano, anche i più impopolari, si rese conto che la misura era colma e la corda, a botte di Imu e leggi Fornero, stava per spezzarsi. E così mandò tutto a ramengo per darsi, riuscendoci, una nuova spinta elettorale. Ora, se è vero che una larga maggioranza rende irrilevanti le mattane dei singoli in tempo di pace, non esclude una rivolta dei blocchi in tempo di guerra. Qualora rimanere dentro dovesse rivelarsi troppo sanguinoso - per i partiti così come per le componenti sociali che li hanno spediti in maggioranza - i ripensamenti non tarderebbero ad arrivare.
«Il governo Draghi? Io non c’ero. E se c’ero non ero d’accordo», si potrà sempre dire. Miracoli della politica liquida al tempo dei radicalismi di sabbia.
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