Oggi il presidente Mario Draghi concluderà il primo giro di consultazioni con i partiti. Lunedì ascolterà anche le parti sociali e ripartirà con un nuovo tour di incontri. Il capo dello Stato nel conferirgli l’incarico non ha posto limiti di tempo, sebbene la gravità della situazione non permetta di prendersela comoda.
A Draghi viene chiesto di creare una maggioranza e quindi un governo che consenta all’Italia di accedere subito ai fondi europei del Recovery fund e di portare l’Italia fuori dalla crisi, resa insostenibile dalla crisi. Due obiettivi difficilissimi perché – come nelle matrioske – hanno al loro interno una serie di questioni irrisolte. Il punto di partenza è il contenimento della pandemia a livello sanitario e sociale. Le decisioni del governo su isolamento, scuole, turismo, commercio sono state ondivaghe e in certi casi adottate più per l’influenza dei consiglieri scientifici che per valutazione politica. Ora anche la classe media, spina dorsale del paese, fatta di professionisti, commercianti, artigiani e piccoli imprenditori, è sul lastrico. E a marzo scade il blocco dei licenziamenti che rischia di innescare proteste incontrollabili.
Per accedere ai soldi del Recovery fund, all’Italia è chiesta una prova di maturità e di concretezza: deve avviare una serie di riforme, tra le quali spiccano quella della giustizia e della pubblica amministrazione. Due macigni che da decenni bloccano lo sviluppo e favoriscono da un lato la ramificazione della criminalità e della corruzione e dall’altro la sfiducia dei cittadini.
Lo Stato non riesce a entrare efficacemente nella vita del Paese. Basterebbero solo questi punti per scoraggiare chiunque dal tentare l’impresa. In più Draghi deve mettere d’accordo partiti litigiosi, abituati alla logica del ricatto e della spartizione, protagonisti in un Parlamento che vive l’ultima stagione delle vacche grasse. Ma deve anche risalire la china segnata dall’incompetenza elevata a modello. Non si discute sul fatto che l’uomo abbia le capacità per farlo, come mostrano la fiducia a scatola chiusa accordatagli dai mercati e l’appoggio incondizionato dell’Europa. La sola sua discesa in campo ha fatto guadagnare agli italiani già un bel po’ di milioni, se si considera che un punto di spread può valere una cifra fra i 35 e i 40 milioni di interessi che lo Stato paga sul debito pubblico. Senza contare i benefici portati in Borsa, da tre giorni con un forte segno positivo.
Ma Draghi per quanto capace, rispettato e apprezzato non è un dio. Anche se, contrariamente alla vulgata corrente, oltre a essere un «tecnico» fuoriclasse, è soprattutto un finissimo politico. Non si guida la Bce nel momento in cui l’Europa è sul punto di dissolversi se non si è politici nel senso più pieno e alto del termine. Giovedì è stato definito da Giorgetti, vicesegretario della Lega, come il Ronaldo che non può stare in panchina. In questo paragone c’è la sintesi perfetta dell’impegno più insidioso che attende Draghi. Per riprendere la metafora calcistica, è come se Ronaldo, appunto, decidesse di giocare nel torneo parrocchiale. Tecnicamente non avrebbe rivali, ma le squadre dovrebbero salire al suo livello perché la partita sia giocabile.
L’ingresso di Draghi sulla scena politica richiede cioè un cambio di passo a tutti gli altri attori. Non solo una riconsiderazione delle pretese già sbandierate ai quattro venti, ma una qualità diversa dell’azione politica, dove il bene comune e non il numero delle poltrone e delle presidenze torna a essere il vero fine. In questo Draghi deve compiere la prima e grande riforma dopo una lunga stagione di veleni: i partiti e i loro leader devono riconoscersi reciprocamente, così come la comunità internazionale riconosce lui.
Fa sperare il fatto che dai rigidi e intransigenti no della vigilia, fra giovedì e ieri molte posizioni si siano ammorbidite, anche per calcolo e convenienza, certo. Però è già un passo in avanti rispetto alla serie di veti incrociati che hanno poi determinato la fine del governo Conte. C’è anche un’Italia che comincia a far sentire la sua voce, come gli industriali del Nord che ora fanno pressioni su Salvini perché sieda al tavolo pure col diavolo, se questo serve a salvare le aziende. E non è un caso se il centrodestra unito e compatto fino a mercoledì sera, dall’indomani vada separato e distinto alle consultazioni. Così non è un caso se dai sprezzanti no di Crimi e Grillo si sia passati alla disponibilità di Conte e Di Maio.
Una cosa va detta con chiarezza perché all’entusiasmo non subentri lo sconforto. Il governo Draghi – se e quando nascerà – dovrà chiedere impegno, qualità e sacrifici a tutti. Nessuno s’illuda che l’assistenzialismo potrà continuare ad andare avanti ai ritmi attuali, anche se questo non significherà certo la fine del welfare, come qualcuno propaganda. Ogni ricostruzione, e l’Italia ha bisogno di una radicale e profonda, richiede sudore, impegno e volontà. Perché se è vero che i partiti devono cambiare, anche gli italiani devono tornare a riconoscersi, smettendola di giocare a guelfi e ghibellini. Draghi deve ricostruire un’unità nazionale. Dalla sua ha il non poco trascurabile vantaggio di dire poche parole, ma di parlare con i fatti. È un buon punto per tirarci tutti su le maniche e ripartire, piuttosto che correre dietro alle effimere chiacchiere dei social.