Osservò un giorno il premier inglese Winston Churchill (1874-1965) che, in una democrazia funzionante, su due voti di maggioranza uno è di troppo.
Giusto: in una democrazia funzionante. Infatti, nell’ordinata Germania, la coalizione tra socialdemocratici e liberali si resse, negli Anni Settanta, solo su due voti in più rispetto all’opposizione democristiana ( Ma colà vigeva e vige lo scudo indiretto della sfiducia costruttiva). A ogni modo: casi rari. Eccezioni che confermano la seguente regola: più una coalizione di governo è ampia, più può ambire a durare nel tempo.
Alcide De Gasperi (1881-1954) nel 1948 sfiorò di poco l’obiettivo della maggioranza assoluta dei voti elettorali, ma in Aula la sua Dc poté disporre della maggioranza assoluta dei seggi. Un altro, al posto dello statista trentino, avrebbe festeggiato a champagne e avrebbe varato un bel monocolore scudocrociato e tanti saluti ai possibili partner. Invece, De Gasperi fece il contrario: non mollò i suoi alleati (Psdi, Pri, Pli) e con loro proseguì nella strategia di vaste coalizioni.
Uno: allargare sempre la base democratica. Due: evitare di concedere a gruppi minoritari o a singoli parlamentari un potere di ricatto capace di paralizzare l’attività di governo. In effetti è così: più le alleanze al comando sono striminzite, più cresce il potere di interdizione di ogni componente della maggioranza, col rischio di trasformare la scrivania di Palazzo Chigi in un mini-campo di battaglia su cui converge e si esercita il fuoco amico di postulanti e taglieggiatori vari.
Ecco perché, al posto di Giuseppe Conte o di qualunque altro presidente del Consiglio, ci guarderemmo bene dall’assecondare la formazione di schieramenti privi di una cospicua maggioranza, non foss’altro che per salvaguardare le nostre coronarie, oltre che per proteggere la tenuta della coalizione. Già governare forti di un’ampia dotazione parlamentare è un terno al lotto, in Italia. Figuriamoci governare forti (cioè deboli) di una misera armatura bicamerale. A meno che non venga inserito, in Costituzione, l’istituto della sfiducia costruttiva (di casa in Germania), che impedisce di mandare via un governo se un altro non è già pronto per subentrargli. Ma della sfiducia costruttiva si parla da anni e si continuerà a discuterne per decenni: con ogni probabilità non se ne farà mai nulla, perché questa riforma ridurrebbe di parecchio le pretese e le pressioni di gruppi, gruppetti ed estorsori vari.
Ovviamente Conte è il primo a sapere che le coalizioni minimali e rabberciate non costituiscono certo un elisir di lunga vita per i governi. Non a caso sta intensificando i messaggi di collaborazione verso le sigle di centro e in particolare verso Forza Italia. In cambio, per rendere credibile l’offerta, Conte offrirebbe il ritorno alla legge elettorale proporzionale pura.
Fossimo al posto del premier, però, tutto faremmo tranne che ripristinare le regole del gioco elettorale della Prima Repubblica. Anche per esigenze di autodifesa. Già con la presenza di partiti ben strutturati e, in alcuni momenti, alquanto disciplinati, i governi si succedevano con più rapidità delle stagioni metereologiche. Non osiamo, perciò, nemmeno immaginare a quale giostra di nomi e formule assisteremmo qualora tornassero le regole elettorali della Prima Repubblica, per giunta senza i partiti ideologici della Prima Repubblica. Mamma mia. Altro che mercato, suk e roba simile. Povero governo: sarebbe vittima di un sabotaggio continuo, di ricatti incrociati all’infinito.
Solo una medicina potrebbe alleviare le conseguenze dell’instabilità politica figlia delle pretese reciproche nella coalizione: l’aumento ulteriore della spesa pubblica (come se il timore per il debito pubblico fuori controllo fosse la sortita di qualche buontempone). Invece, non è un caso che il debito pubblico sia più gravoso nei Paesi caratterizzati da modelli elettorali proporzionali. La gara per acquisire il consenso porta a moltiplicare le voci e gli organi di spesa, con buona pace di tutti i propositi di risanamento economico. L’economista e ministro Nino Andreatta (1928-2007) non si risparmò mai nel denunciare il diretto collegamento, l’equazione, tra sistema proporzionale e super-debito. Infatti, fu sempre in prima linea, nelle campagne referendarie per l’introduzione del maggioritario, che non sarà il toccasana della democrazia, ma, perlomeno sulla carta, rappresenta un fattore di chiarezza e di minore instabilità.
Non sappiamo se l’apertura di Conte a Forza Italia, cui l’avvocato di Palazzo Chigi ha prospettato la riforma elettorale in senso proporzionale, vada presa alla lettera o nasconda altri punti di possibile convergenza. Se l’apertura fosse presa alla lettera, però, essa porrebbe un problema, per così dire, di sensibilità e fair play, con l’attuale capo dello stato, autore della legge elettorale maggioritaria introdotta durante la stagione referendaria, al crepuscolo della Prima Repubblica. Non crediamo che Mattarella sarebbe felice di porre la sua firma sotto un testo che riporterebbe il Belpaese all’ingovernabilità cronica del passato.
Piuttosto. Nei panni di Conte ripescheremmo proprio la legge elettorale Mattarella e la riproporremmo così com’è. Di certo, tra tutti i modelli elettorali sperimentati finora, è quello che ha funzionato meglio. o ha funzionato meno peggio. Il che basta e avanza per evitare che con la proporzionale la Penisola si balcanizzi o si libanesizzi all’infinito. Sarebbe l’ultimo passo verso il baratro.
Idem Aldo Moro (1916-1978). Sia da segretario dc sia da presidente del Consiglio, Moro era ossessionato dall’allargamento delle alleanze di governo. Lo era, come De Gasperi, per due motivi.