Tutti (o quasi) trasformisti i politici italiani? Tutti colpiti dal virus invincibile della migrazione verso altri schieramenti politici, spesso per ragioni di convenienza, di calcolo e di opportunismo? Le cose non sono così semplici.
Alla base, infatti, vi è un istituto risalente alla Rivoluzione Francese: il divieto del vincolo di mandato. Siamo negli anni in cui nasce il mondo contemporaneo (1791) e lo scontro tra popolo e monarchia porta il primo a sancire un principio ineludibile, destinato ad arrivare ai giorni nostri. L’eletto dal popolo rappresenta l’intera nazione, e non gli potrà essere conferito alcun mandato. Questo perché la sovranità è diventata popolare e non appartiene più a un solo uomo (il re).
Ignorare questo “dettaglio” – peraltro costituzionalizzato nell’art. 67 della nostra Carta fondamentale – significa non riuscire a comprendere fino in fondo quanto accaduto in questi giorni, con la girandola di responsabili, costruttori e via discorrendo sulle cui teste si sono giocate le sorti del governo. È il nostro impianto costituzionale che consente disinvolti passaggi e inattesi mutamenti d’opinione, anche se – sul piano etico e politico – occorre distinguere. La storia italiana più o meno recente è piena di vicende analoghe, alcune con code giudiziarie, che di volta in volta hanno puntellato maggioranze (non solo numericamente) deboli.
La crescita dei passaggi dalla forza per cui si è stati eletti ad un’altra è esponenziale, ed una ragione – insieme all’indubbio calo di qualità della classe politica – va individuata nel mutamento che lo scenario complessivo ha subito. Cadute le ideologie, che costituivano un collante tra l’esponente politico e il suo partito, sono via via prevalse le ragioni personali, gli opportunismi, anche a fronte di compagini spesso prive di una loro identità. È paradossale che, ai tempi della prima Repubblica, quando il voto di preferenza consentiva di scegliere i propri rappresentanti, il tasso di “fedeltà” degli eletti ai partiti rappresentati fosse assai più elevato. Ma questo accadeva perché gli eletti rappresentavano la forza politica, l’idea che incarnava, più che loro stessi. È anche vero che le strutture monolitiche di partiti come la DC o il PCI rendevano difficile trasmigrare con nonchalance altrove, ma questo accadeva proprio perché vi erano nette differenze di pensiero. L’operazione, tuttavia, non era teoricamente impossibile guardando ai partiti che si collocavano in posizioni più sfumate.
Oggi, invece, dopo il partito-persona che ha furoreggiato a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ci troviamo di fronte alle persone-partito (sintomatico è il proliferare di micro-forze politiche) che finiscono per spendere la loro ridottissima forza parlamentare in cambio di piccole prebende.
In questo quadro si collocano gli odierni responsabili, che divengono indispensabili in situazioni come quella dell’attuale (quasi) crisi di governo. Eticamente e politicamente poco esaltanti, i loro comportamenti non possono però trovare una risposta sotto il profilo giuridico.
Il divieto di vincolo di mandato rappresenta infatti un baluardo per una democrazia di stampo occidentale. L’alternativa sarebbe trasformare deputati e senatori in semplici portavoce dei leader di partito. Accrescendo i poteri – già enormi – di segreterie politiche e affini, cui il vigente sistema elettorale consente di scegliere – rectius, di imporre – i candidati alle elezioni.
In un recente passato, sull’onda rousseauiana, qualche forza politica (anche nel “contratto” del governo Conte I) ha proposto di modificare l’art. 67 Cost., introducendo il vincolo di mandato – coerentemente ad un concetto di tecno-democrazia diretta – ma, fortunatamente, è rimasta una voce isolata dispersa nell’etere.
Ciò non significa che i parlamentari non debbano essere responsabili, ma non nel senso invalso in questi giorni. Responsabili verso il proprio elettorato, che li ha investiti di un mandato perché d’accordo con le sue idee. Ed è al momento dell’eventuale rielezione che questa responsabilità emerge. Si può cambiare idea, certo, ma bisogna vedere come e perché lo si fa.
È questo il vero senso dell’essere (politicamente) responsabili.
I cambi di casacca possono avvenire per motivi più o meno nobili, ma non c’è una sanzione immediata. Saranno i cittadini a soppesare il tutto, una volta chiamati alle urne. Il che non sempre accade. In fondo la classe politica è lo specchio di coloro che rappresenta, spesso disposti ad essere tolleranti con chi ha tradito promesse ed idee. Ai quali occorrerebbe ricordare il pragmatico consiglio di Alcide De Gasperi, che invitava i candidati a cercare «di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vinceste le elezioni».
È questo, forse, il segreto per essere dei politici credibili. E responsabili.