L’inizio del nuovo anno, si sa, è sempre denso di buoni propositi: dalla dieta all’attività fisica, dalla cantina da riordinare ai libri da leggere. Oggi il proposito comune è che sia superata la crisi pandemica. Ma più che un proposito, è una necessità. Il problema di fondo, soffocato dalle mille esigenze quotidiane, è cosa e come fare quando la pandemia sarà cessata o quantomeno avrà allentato la stretta mortale.
Il vaccino tanto invocato sta entrando nel corpo di milioni di persone, è lecito aspettarsi che entro qualche mese il virus sarà sotto controllo: allora che si farà? Affidarsi al Cielo o alla buona sorte può servire a tenere alto il morale, ma meglio sarebbe avere obiettivi chiari e idee su cui costruire una strategia.
Sotto questo profilo l’Italia non sembra messa bene. La classe politica appare troppo ripiegata su stessa, ovvero troppo attenta a gestire i bisogni quotidiani in funzione delle poltrone da mantenere. La classe imprenditoriale è troppo concentrata a cercare di salvare il salvabile dallo tsunami Covid e non riesce ad andare oltre le richieste di interventi pubblici, per carità, comprensibili, ma né risolutivi né forieri di sviluppo e progresso. Resta la classe intellettuale, che da tempo però è passata dalla militanza più attiva all’indifferenza.
Resistono interventi parcellizzati, specifici per discipline o settori – economia – diritto – marketing – ma manca ciò che davvero servirebbe in questo momento: uno sguardo d’insieme e – soprattutto- un quadro prospettico che mostri orizzonti possibili.
L’assoluta impreparazione a livello globale ad affrontare la pandemia ha costretto un po’ tutti i Paesi a navigare a vista, ad affrontare le mille emergenze via via che il virus s’impossessava delle nostre vite. Ora serve un cambio di passo che porti a un cambiamento. Questa parola è stata la formula magica con cui i 5Stelle hanno stravinto le ultime elezioni. In realtà si è rivelato un bluff, scoperto dagli Italiani che nelle varie elezioni amministrative hanno ritirato buona parte di quella fiducia. Ma questo non significa che sia cessata l’esigenza di un cambiamento, anzi, è ora più che mai necessario. Solo che non si vedono capitani coraggiosi e disinteressati in grado di tracciare rotte sicure. Lo stesso Mattarella, nel consueto discorso di fine anno ha ricordato che «ora dobbiamo preparare il futuro. Non viviamo in una parentesi della storia. Questo è il tempo dei costruttori.
I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le basi di una stagione nuova. Non sono ammesse distrazioni. Non si deve perdere tempo. Non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte». È in questo che gli intellettuali potrebbero dare un contributo determinante: non organici al potere, ma critici, nel senso proprio del termine critica come «arte del giudicare».
Il Covid ha avuto il merito paradossale di mostrare i limiti personali di ciascuno ma anche quelli del sistema Paese. I tagli continui alla sanità pubblica per agevolare quella privata, i corsi di laurea studiati per assegnare docenze e non per formare giovani, i poteri enormi attribuiti alle Regioni in materie vitali per lo Stato e il dialogo con l’Europa condizionato dalle beghe interne hanno mostrato in maniera fin troppo chiara quanto ritardo abbiamo accumulato rispetto ad altri Paesi, che pure partivano da situazioni di netto svantaggio per competenze, capacità e infrastrutture. La spinta data dal Covid all’utilizzo delle nuove tecnologie da un lato ne ha mostrato i vantaggi, dall’altro ha evidenziato quanto sia difficile studiare o lavorare da casa con reti insufficienti e presenti solo su porzioni di territorio. La lezione non è bastata però. Dopo una manovra da 40 miliardi (per buona parte in debito) che distribuisce mance e mancette per non scontentare nessuno, rischiamo un terribile bis con i soldi del Recovery fund messi a disposizione dell’Europa. Il pericolo più che concreto è che quel mare di denaro sia sperperato, a beneficio dei profittatori di turno e della criminalità organizzata, che sta gongolando per i lauti affari che si appresta a fare.
Il dato certo è che il piano italiano per investire i 209 miliardi europei – presentato da tempo dagli altri Paesi – ancora non c’è. Con un duplice danno: stiamo perdendo ulteriore credibilità con l’Europa mentre la lista dei desideri, pardon, dei progetti cresce ogni giorno. L’ultima versione sarebbe arrivata a 123 pagine, salvo intese, ovvero manine e manone che all’ultimo minuto aggiungono e moltiplicano commi. Per rimettere in piedi l’Italia non serve un trattato di economia né un libro dei sogni. Occorrono quattro progetti quattro, su altrettante paginette. Idee chiare con tempi e obiettivi precisi, non una serie infinita di microinterventi per tenere buoni i signorotti dei voti.
Anche il capo dello Stato nel messaggio dell’altra sera l’ha detto con chiarezza: «Il piano europeo per la ripresa, e la sua declinazione nazionale – che deve essere concreta, efficace, rigorosa, senza disperdere risorse - possono permetterci di superare fragilità strutturali che hanno impedito all’Italia di crescere come avrebbe potuto. Cambiamo ciò che va cambiato, rimettendoci coraggiosamente in gioco. Lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo alle giovani generazioni. Ognuno faccia la propria parte». Se così non sarà, il cambiamento resterà uno slogan per le campagne elettorali.
Cambiamento significa innanzitutto mettere non ripetere gli errori del passato, ma provare a immaginare e costruire il futuro. E questo non è solo un buon proposito per l’anno appena cominciato, come ha ricordato Mattarella è soprattutto una necessità cui nessuno può sottrarsi.