Nel deserto di Atacama, in Cile, sotto il cielo più chiaro del mondo, si studia l’universo. Lo fanno insieme scienziati sudamericani, americani, asiatici ed europei. È l’esempio di una straordinaria collaborazione internazionale, in uno straordinario scenario di bellezza per intercettare il futuro. Cosa ci racconta invece il voto in Cile, nella domenica elettorale? Lo sapremo nel dettaglio tra ventiquattr’ore, già che in base al fuso, le urne sono aperte da poco al momento in un scriviamo.
Le previsioni, tuttavia, a dispetto delle condizioni di quel Paese, segnato da una profonda diseguaglianza sociale, da un sensibile rallentamento della crescita, dal conto interrotto con la dittatura di Augusto Pinochet, nella storia di una ferocia smisurata, legano il passato al presente. Le destre cilene (sono tre e diverse, ma unite per la vittoria al ballottaggio che porta al nuovo governo di Santiago), predicano la filosofia MAGA di Trump, condividono le politiche sovraniste dei populisti di destra europei, a cinquant’anni di distanza, riannodano i fili di quella storia fascista, mai sepolta, e catturano il consenso.
Si conferma, in sostanza, una tendenza che sembra diventata globale e che si misura su temi globali: crisi economica, fine del multilateralismo, conflitti, chiusura delle frontiere - nel mantra della sicurezza nazionale sulla pelle dei migranti, associati impropriamente alla criminalità - il sacrificio dei principi delle democrazie, arrivando al disimpegno morale di fronte ad una nuova identità del male. Globale anche nelle narrazioni, che abusano delle tecnologie, basate su realtà aumentate in chiave distopica, puntando sulla paura e dunque sulla necessità di governi autoritari per governarla.
In parole semplici, la crisi che noi stiamo vivendo in Europa, una crisi profonda che ci spaventa e che ci lascia smarriti, non minaccia solo la nostra civiltà - come ha sentenziato il signor Trump e con lui l’uomo più ricco del mondo Elon Musk – ma le civiltà che abbiamo costruito sul «pale blu dot», il pallido puntino azzurro descritto dalla scienza, con i suoi telescopi puntati sull’universo. Problemi condivisi, mentre le soluzioni restano frammentate. Il backlash (l’effetto di ritorno), su scala globale, continua.
Viviamo il tempo della «dissonanza cognitiva» - come ci spiega la psicologia sociale - ovvero l’incapacità di leggere i fenomeni in atto. Il mondo progressista, di fronte alle ipoteche ideologiche e tecnologiche e al malessere condiviso, rimane diviso, anzi, assente. E di fronte all’attuale illusione del sapere (epistemia), non ci si appoggia nemmeno alla propria umanità. Incontriamo allora i protagonisti sulla scena politica cilena. Sono uomini e donne, con storie completamente diverse.
Al primo turno delle elezioni di novembre, si era imposta per la prima volta una candidata progressista, di umili origini, senza radici europee, espressione del popolo. Credibile, agguerrita, empatica, Jeanette Jara, cinquant’anni, già ministro nel governo del presidente più giovane mai eletto, Gabriel Boric, (neanche quarant’anni, votato soprattutto dai giovani, ma condizionato nella sua azione politica dal referendum sulla riforma costituzionale, bocciato a larghissima maggioranza, in un clima a di fake news,) sta pagando lo scotto del suo impegno sociale. Nonostante le forti capitalizzazioni, susseguitesi per decenni in Cile, a scapito delle fasce più deboli, le proposte di economia assistita da lei introdotte, invece che unire, hanno diviso e naturalmente spaventato. È stato facile per i conservatori appiccicare a Jeanette l’etichetta di comunista e di presentarla come l’alternativa della balcanizzazione all’unità del Paese. Si sono compattate le multinazionali presenti, in un’economia ricca di materie prime, a cominciare dal rame, con l’Unione Europea, in cima alla lista dei partner internazionali, anche prima della Cina. L’Ue è rimasta di fatto silente, mentre l’amministrazione Trump non è stata lì a guardare. Jara sembrava in corsa, ma incalzata dalla possente macchina della propaganda, orchestrata con cura, via via ha perso punti nei sondaggi. Il suo diretto antagonista al ballottaggio, José Antonio Kast ha aumentato il vantaggio. Kast è l’erede di una famiglia tedesca, di ideologia nazista, fuggita in Sudamerica, dopo la sconfitta del Terzo Reich. Non nasconde le sue simpatie per Pinochet e dopo due tentativi in passato andati vuoto, oggi è in pole position. Ha stretto alleanza con l’estrema destra di Joannes Kaiser, laddove basta il nome per immaginarne il progetto politico: estremista, antifemminista, (sanzionato dal suo partito per dichiarazioni e posizioni considerate anticostituzionali), paragonato a Trump e al presidente «sega elettrica» Milei. Kaiser esprime l’anima fondamentalista, che lega il passato al presente del Cile. Guerrafondaio e vicino alla lobby internazionale delle armi, sta appoggiando il progetto trumpiano di invasione del Venezuela.
Terza costola, benché secondaria, della destra unita per la vittoria di Kast, l’esponente del centrodestra, Emily Matthei, sulla scena politica da anni. La Matthei fu travolta agli inizi del duemila dal ciclone Michelle Bachelet, prima presidente del Cile, progressista, dopo la fine del suo mandato, nel 2010, in continuità per quanto fosse possibile con il neo presidente di destra, Pinêro nell’interesse del paese. Ma erano altri tempi e altre figure politiche. Emily, comunque, ha una percentuale di consenso da giocare.
Vengono in mente le analogie nostrane, benché con attori diversi. È evidente, anche in Cile, che le destre, in vista degli obiettivi, sanno compattarsi a prescindere. Le sinistre, no. Che peso giocherà il paese di Pablo Neruda nel «corollario Trump» alla dottrina Monroe, indicato espressamente nel recente documento della Casa Bianca, che - come sappiamo - ha altrettanto espressamente colpito e denigrato l’Europa? Stiamo parlando del progetto annunciato di vedere le Americhe (Nord, Centro, Sud) nel pieno controllo della squadra del tycoon, senza alcuna interferenza esterna. Considerate le accelerazioni in corso, lo vedremo presto. Pablo Neruda, nel suo bellissimo libro Confesso, che ho vissuto scriveva: «La poesia è sempre un atto di pace e il poeta nasce dalla pace, come il pane dalla farina». Benché non sia il tempo dei poeti, vedremo anche questo. «El pueblo unido» dei suoi anni, in ogni caso, ha perso.
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