Domenica 14 Dicembre 2025 | 21:57

Ecco tre buoni motivi per approvare la riforma del premierato

Ecco tre buoni motivi per approvare la riforma del premierato

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Emozioni e sorrisi per il giuramento dei sottosegretari

Se c’è un merito che viene riconosciuto a Giorgia Meloni da più parti (soprattutto all’estero!) è quello di garantire un valore considerato imprescindibile nelle democrazie rappresentative: la stabilità politica

Domenica 14 Dicembre 2025, 14:00

Tra i commentatori politici c’è chi si spinge fino al punto di sostenere che la volontà del governo di procedere in direzione della riforma del premierato sia la cartina di tornasole non della sua forza, ma addirittura della sua debolezza. Secondo questa suggestiva interpretazione, l’esecutivo, avvertendo di essere debole, chiederebbe maggiori poteri proprio con l’elezione diretta del premier. Il costrutto concettuale di questo stravagante teorema politico è, insomma, che meno sei solido e più hai bisogno di puntellarti per non perdere il potere. Tutte le argomentazioni sono legittime, ci mancherebbe, ma quella appena esposta mi sembra oggettivamente infondata.

Se c’è un merito che viene riconosciuto a Giorgia Meloni da più parti (soprattutto all’estero!) è quello di garantire un valore considerato imprescindibile nelle democrazie rappresentative: la stabilità politica. Le cancellerie di tutto il mondo hanno bisogno di sapere se gli interlocutori dei Paesi con i quali sviluppano relazioni diplomatiche e commerciali operano nell’arco di una o più legislature o se invece hanno il respiro corto. I mercati hanno bisogno di testare l’affidabilità di un progetto politico e di un disegno programmatico, partendo sì da elementi quantitativi, come per esempio il quadro di finanza pubblica, ma anche dalla credibilità personale e dalla reputazione del Presidente del Consiglio. Le imprese multinazionali investono in base alla percezione di stabilità e solidità politica dei vari governi. L’economia e la finanza ragionano, infatti, in base ad analisi probabilistiche che si fondino tuttavia sulla realtà delle cose.

Anche chi non ama la premier o è distaccato nei suoi confronti, le riconosce di essere una leader pragmatica, coerente con i propri valori, in grado di mantenere gli impegni presi davanti agli elettori. È questo il punto centrale dei processi democratici: chiedere il consenso per cambiare le cose che non vanno, ovviamente dopo aver individuato le priorità su cui intervenire. Un’operazione che ha bisogno di una prospettiva diacronica ampia al fine di proiettare al meglio le scelte politiche verso il futuro, rinunciando nel contempo alla logica del presentismo. Logica che in passato ha generato non pochi danni. La riforma del premierato, alla quale è dedicata quest’analisi, nasce proprio da questa considerazione preliminare. Potremmo considerare, infatti, il premierato come l’infrastruttura politica più rilevante, come lo «scheletro» della politica in quanto territorio di senso e strumento di programmazione e deliberazione pubblica, come il sistema che garantisce il funzionamento di un Paese.

Il primo motivo per approvare prima possibile la riforma del premierato è, dunque, il bisogno di continuare ad assicurare stabilità politica ed istituzionale, come ricordato nelle ultime ore da Arianna Meloni alla festa di Atreju, che oggi si conclude con l’intervento del primo ministro. Il significato di questo bisogno, almeno a livello generale, ruota intorno alla possibilità di sottrarre i sistemi rappresentativi al pericolo di alterazioni diverse da quelle derivanti dal solo voto dei cittadini. È l’elettorato attivo, infatti, l’unico ad avere il potere di decidere chi governa e chi sta all’opposizione. Di certo non lo sono i cosiddetti «poteri forti» che, operando dall’esterno e senza legittimazione popolare, cambiano gli equilibri politici in una modalità incomprensibile ai più. Alcuni governi tecnici hanno avuto l’unico compito di allungare l’esercizio del potere da parte di quelle aree politiche che avevano perso il sostegno degli elettori, oppure hanno assolto alla funzione di impedire che i loro avversari, pur muniti di consenso popolare, assumessero la responsabilità della guida del Paese. Nella cosiddetta Prima Repubblica abbiamo visto quante e quali conseguenze si sono create per il peso eccessivo della partitocrazia, per il condizionamento delle correnti, per gli equilibrismi di potere in base ad ambizioni personali e non ad azioni strutturate di policy. Il tema, insomma, è quello della necessità di evitare ribaltoni politici, rimpasti o rimpastini, ma anche scioglimenti anticipati delle Camere. Una delle cause dell’astensionismo, così come sedimentatosi in decenni di storia politica italiana, è la percezione della scarsa rilevanza del voto. Non si trascuri il fatto che i cittadini spesso hanno avuto la sensazione di dover conferire a partiti e leader una delega in bianco e per giunta con l’unico obiettivo di eleggere i membri del Parlamento. È quello che accaduto con le elezioni politiche del 2018 vinte dal Movimento Cinque Stelle con più del 32 %. Com’è noto, i leader pentastellati per formare il governo si rivolsero prima al Pd, che era il secondo partito più votato con quasi il 19%, e poi, incassato il no alla formazione di un esecutivo di coalizione, si rivolsero alla Lega, che all’epoca era il terzo partito più votato con oltre il 17% dei voti. Fu così che nacque prima il governo gialloverde e poi il governo giallorosso con Cinque Stelle, Pd e IV, a seguito dell’uscita di Salvini dalla maggioranza. Due impostazioni politiche agli antipodi, ma con lo stesso premier: Giuseppe Conte. Il passaggio successivo fu la costituzione del governo Draghi sostenuto da tutti i partiti, tranne che da Fratelli d’Italia, protagonista tuttavia di un’opposizione costruttiva e propositiva.

Il secondo motivo è legato alla dimensione fattuale. Ancora prima della presentazione del disegno di legge costituzionale sulla riforma del premierato da parte del governo Meloni, gli elettori sono stati messi più volte nella condizione sostanziale (e non formale) di fare le proprie scelte politiche, alla vigilia delle elezioni, sapendo chi avrebbe governato e chi sarebbe diventato Presidente del Consiglio. Facciamo l’esempio delle elezioni politiche del 2022. Il centrodestra ha intrapreso la strada della «unità nella diversità», avendo ben chiara la leadership della coalizione da parte di Giorgia Meloni, in quanto fondatrice e guida di Fratelli d’Italia, partito che ambiva al primo posto della classifica dei più votati. Il centrosinistra, invece, si è presentato agli elettori con uno schema differente. Uno schema che, al contrario, ruota intorno alla logica della «diversità per la ipotetica ricerca dell’unità». Non è una differenza di poco conto. A riprova di questo ragionamento si ricordi il modo in cui sono stati costruiti i claim della comunicazione politica in vista delle consultazioni elettorali dell’epoca. Si passò dalla polarizzazione dello scontro ricercata a sinistra con lo «Scegli» di Enrico Letta, fino al «Credo» di Matteo Salvini, al «Dalla parte giusta» di Giuseppe Conte e soprattutto al «Pronti» di Giorgia Meloni. Pronti, appunto, a governare, come poi sarebbe avvenuto. La riforma del premierato rende questa dinamica più esplicita, poiché i cittadini hanno la possibilità di eleggere direttamente (e per cinque anni) il Presidente del Consiglio, figura che attualmente viene nominata dal Capo dello Stato in base all’esito elettorale e dopo aver preso atto della volontà dei gruppi parlamentari e dei leader politici in sede di consultazioni quirinalizie. Nel linguaggio corrente, usando frequentemente l’espressione «premier», la riforma del premierato è già nei fatti.

Il terzo motivo è relativo alla constatazione che la strada maestra della riforma costituzionale è migliore della scorciatoia delle modifiche (parziali o totali) della legge elettorale. Tema quest’ultimo che potrebbe diventare un terreno di scontro non solo tra maggioranza e opposizione, ma anche tra gli stessi partiti di maggioranza. In questo caso, il riferimento è alla questione dei collegi uninominali a rischio di soppressione e all’introduzione di un possibile premio di maggioranza proprio nell’ottica della ricerca della maggiore stabilità possibile dei governi, pur in assenza dell’elezione diretta del premier.

Non è un’impresa semplice quella dell’approvazione di una riforma che coincide con una significativa revisione costituzionale. C’è bisogno del voto favorevole dei due terzi delle Camere oppure, qualora si ottenesse più del 50% ma meno dei due terzi, c’è bisogno di un via libera dei cittadini con referendum popolare. E’ quello che avverrà con la riforma della giustizia. Non va sottovalutato, infine, che la partita non è più solo quella della prosecuzione del governo Meloni nella prossima legislatura. Vanno considerate anche le strategie di centrodestra e centrosinistra per l’elezione del successore di Sergio Mattarella a conclusione del suo secondo settennato. Staremo a vedere.

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