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Il fattore nomine aspettando le quirinarie

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica italiana

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica italiana

Si sa. Il 2020 passerà alla storia come l’annus horribilis, l’anno della Grande Paura. Ma il 2021 passerà alla storia come l’annus mirabilis, l’anno della Grande Rinascita?

Giovedì 31 Dicembre 2020, 16:52

Si sa. Il 2020 passerà alla storia come l’annus horribilis, l’anno della Grande Paura. Ma il 2021 passerà alla storia come l’annus mirabilis, l’anno della Grande Rinascita? Se lo augurano un po’ tutti, all’indomani delle prime vaccinazioni che hanno ridato speranza e fiducia al mondo intero. L’Italia rischia più di tutte in Europa. Rischia in materia di immunizzazioni: guai se i calcoli sulle fiale necessarie fossero sbagliati e se l’iniezione del siero a tutti ritardasse fino al punto da compromettere l’appuntamento con l’immunità di gregge. Rischia, sempre l’Italia, in materia di realizzazioni da Recovery Plan: guai se la più mastodontica cifra mai stanziata per la ripresa socio-economica del Paese annegasse nei fiumi dell’assistenzialismo a beneficio di corporazioni e clientele varie. Sarebbe un colpo mortale, persino più grave dei lutti causati dal Covid-19. Purtroppo la consapevolezza della posta in gioco (mai così decisiva) non sembra particolarmente diffusa e sentita in vasti settori della classe politica, alla luce delle ultime leggi di spesa, sempre prodighe di regalie ai gruppi di pressione (eufemismo) e sempre avare di risorse per gli investimenti.

Purtroppo stavolta l’Italia non può più permettersi di perdere tempo e quattrini. Ne va della sua tenuta in Europa. Ne va della sua tenuta come nazione. Se non vuole rischiare di vivere la tragedia greca di qualche anno addietro, il Belpaese deve far tesoro dell’ultima distinzione-esortazione di Mario Draghi: esiste un debito buono e un debito cattivo, sta a noi stabilire quale scegliere. Sottinteso: se si continua a sottoscrivere il debito cattivo, buona notte.
Il generale Charles De Gaulle (1890-1970), notoriamente un tipo sbrigativo, era solito ripetere che governare significa asfaltare. Oggi un’affermazione simile verrebbe massacrata su tutti gli organi di informazione, verrebbe additata a pratica deprecabile, ecologicamente inammissibile. Ma il Generale non andava preso alla lettera. Lui intendeva dire con il verbo asfaltare che le opere pubbliche si devono fare e si devono vedere e che il resto è solo un inutile, stucchevole bla-bla. Ovviamente le strade asfaltate, secondo De Gaulle, rientravano nell’elenco delle priorità di un governo nazionale, non foss’altro perché più i trasporti sono scorrevoli e comodi, più le imprese se ne giovano, a beneficio dell’economia generale.
In Italia, invece, e non da oggi, governare significa nominare. A tutti i livelli istituzionali. Il Belpaese non cresce perché la questione dei nomi e delle nomine blocca qualsiasi cosa, manda all’aria qualsiasi iniziativa. Dietro ogni stop, dietro ogni scoglio, dietro ogni crisi e pre-crisi, c’è sempre un problema di persone, di incarichi, di governance, come si usa dire adesso in politica adoperando un termine aziendale che non c’entra nulla con la pratica della lottizzazione partitocratica permanente. Oggi, ad esempio, non è solo il ruolo di guida dei servizi segreti a mettere in forse la durata del governo. Non si contano le poltrone da assegnare, anche in vista dei soldi che pioveranno, se pioveranno, dall’Europa.
Ovviamente, a rendere ancora più incerto il quadro politico - oltre allo scontro Conte-Renzi, che lascia presagire prossimi venti di crisi -, provvederà la volata per il Quirinale, di fatto già partita, che si concluderà tra un annetto, quando alle soglie del 2022 verrà proclamato il nuovo Capo dello Stato.
Le quirinarie stanno scolpendo una legge sostanziale della politica italiana: ogni sette anni il peso della massima magistratura dello Stato cresce sistematicamente. Cresce perché, più trascorrono gli anni, più si avverte la necessità di un punto di riferimento stabile e indiscusso per il Belpaese. Non a caso, complice l’instabilità cronica dei governi, l’Italia si avvia a trasformarsi definitivamente in una Repubblica formalmente parlamentare, ma sostanzialmente presidenziale. Certo, gli italiani non vengono chiamati a scegliere in cabina elettorale l’inquilino del Colle, ma la Costituzione e la prassi fanno sì che i poteri del presidente della Repubblica siano poteri a fisarmonica: modesti nei periodi di stabilità politica, notevoli nei periodi di instabilità. E siccome, dopo una fase di relativa calma, i periodi di instabilità stanno ricominciando a moltiplicarsi, si sta allargando giocoforza anche l’influenza della massima autorità della nazione.
Non sappiamo chi sarà il prescelto per il Colle. Né conviene fare previsioni. È vero che lo sprint per il traguardo più prestigioso della Penisola parte perlomeno un anno prima, ma è altrettanto vero che la corsa viene decisa agli ultimi dieci metri che, nel caso in ispecie, corrispondono alla vigilia della convocazione in Aula dei mille Grandi Elettori (senatori, deputati, rappresentanti delle Regioni).
Come si vede, sarà un 2021 in cui il Fattore Nomine monopolizzerà, ancora di più che nel 2020, la scena del Paese. Speriamo solo che avanzi un po’ di tempo per affrontare qualche problema concreto. Così, tanto per gradire.

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