Diciamo la verità. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini non si sono mai presi. Sul piano umano, innanzitutto. E quando due capitani non si prendono sul piano umano è difficile che si prendano su quello politico. Anche perché il Cavaliere è un leader particolare, che attribuisce grande importanza a fattori extrapolitici, come l’amicizia istintiva, la simpatia reciproca e la compatibilità caratteriale. E sotto questi aspetti Berlusconi e Salvini sono, come si può immaginare, agli antipodi.
Completamente diverso era il rapporto di Berlusconi con Umberto Bossi. È vero che il Senatùr non raggiunse mai i numeri elettorali di Salvini e che, di conseguenza, non poteva non riconoscere al Cavaliere il rango di leader della coalizione. Ma è altrettanto vero che Bossi diede molto filo da torcere al sire di Arcore. Gli sabotò il suo primo governo (1994), lo coprì di insulti che manco allo stadio durante un derby. Eppure, malgrado tutto, si percepiva che Berlusconi e Bossi si piacessero sempre (anche durante i litigi) e che, più prima che poi, fossero destinati a riabbracciarsi (in era preCovid, si capisce) e a riempirsi di continue reciproche attestazioni di stima e affetto.
Di Berlusconi e Salvini, invece, si intuiva sùbito che nessuno dei due avrebbe mai invitato a cena l’altro (l’alleato), pur non avendo, i due, mai rotto politicamente. Ma, si sa, i caratteri sono fondamentali per la riuscita di ogni matrimonio, sia di volere sia di potere.
Intendiamoci, i rapporti di forza tra i capi di Forza Italia e Lega oggi sono ribaltati rispetto ai tempi di Bossi. La Lega ha percentuali assai più rotonde. Salvini lo sa e, di conseguenza, lo fa pesare. Il che, ovviamente, non rende felice SB.
Inoltre, sempre nel centrodestra. la lotta per la leadership non è più una questione dinastica e monarchica, semmai plurale. Oggi il campo moderato appare più affollato dopo la scalata di Giorgia Meloni a montagne elettorali più alte. Ma Berlusconi non è tipo da arrendersi supinamente. In cuor suo deve rimuginare sul detto cucciano “Le quote azionarie si pesano, non si contano”, sognando di riadattarlo alla competizione nel centrodestra. Ma a differenza di quanto capitava al banchiere Enrico Cuccia (1907-2000), i cui disegni finanziari raramente incontravano ostacoli insormontabili, per Berlusconi non è così semplice, tanto è vero che in alcune partite decisive (ultimo: lo scontro con Bollorè per il controllo di Mediaset) il Cavaliere trova sponde più a sinistra che a destra.
E però. Che si dovesse arrivare a una sorta di resa dei conti tra Berlusconi e Salvini, era scritto nelle stelle, nelle eurostelle. Lo era indipendentemente dalle ragioni testé abbozzate, a iniziare dalla distanza caratteriale e dal distanziamento relazionale. Gli è che lo spartiacque più ostico da superare consiste nell’album di famiglia di ieri e oggi di Berlusconi e Salvini.
Anche se Berlusconi non ha mai provato un trasporto rimarchevole nei confronti di Angela Merkel, Forza Italia fa parte del Partito Popolare Europeo e lì intende restare a tempo indeterminato. L’appartenenza a una o a un’altra famiglia politica europea non è un orpello insignificante o un distintivo inutile. È la chiave di volta di tutte le scelte strategiche. Sull’Europa si abbattono più fulmini che sul Monte Bianco, si fa l’impossibile per depotenziarla e svuotarla, ma il processo unitario non si ferma, con buona pace delle varie Brexit o dei nazionalisti dell’Est (Visegrad). Infatti. Nonostante tutto, il ruolo delle grandi aggregazioni politiche continentali è cresciuto assai negli ultimi decenni. Stare ai margini dei grandi gruppi parlamentari di Strasburgo è come partecipare alla finale di Champions League restando fino all’ultimo in panchina.
Traduzione. Indipendentemente dalla vicenda Mediaset, dal passaggio di alcuni deputati da un partito a un altro all’interno del centrodestra, i distinguo, le differenze, pure su temi assai caldi, tra Berlusconi e Salvini rivengono dall’Europa e attengono alla linea complessiva portata avanti dai rispettivi europartiti, multinazionali, a Bruxelles e a Strasburgo. E siccome le difformità politico-socio-programmatiche tra popolari e sovranisti, in Europa, non sono di poco momento, eccoti che anche sul piano nazionale i contraccolpi non siano facili ad assorbirsi. tanto è vero che Giancarlo Giorgetti, numero due di Salvini e colomba del Carroccio, è impegnato da tempo nella strategia dell’attenzione nei confronti del Ppe a trazione tedesca. Sa, Giorgetti, che la lite continua con la Merkel può risultare assai deleteria, fatale, per le fortune e le prospettive leghiste. Specie ora che alla Casa Bianca sta per insediarsi un signore che, per temperamento e intenzioni è l’antitesi di Donald Trump, punto di riferimento di Salvini in questi anni. Meglio, molto meglio, per Giorgetti, ragionare, discutere, prendere persino in considerazione l’ipotesi che, a lungo termine, la Lega di Salvini possa approdare al fiume politico (Ppe) in cui naviga la Cancelliera.
Ma non è solo la collocazione competitiva in Europa ad allargare il fossato tra Berlusconi e Salvini. C’entra molto la prospettiva a breve termine dell’intero sistema politico italiano. La logica maggioritaria (due massimo tre schieramenti in pista) appare in via d’estinzione. È risorto, anzi è già tornato il principio proporzionalistico (ognuno bada per sè, alleanze solo dopo il voto). Ovvio che, rebus sic stantibus, la conflittualità tra formazioni politiche che pescano nel medesimo elettorato, pur non nascondendo obiettivi diversi, sia destinata a esplodere con più fragore del passato.
Morale. Se sull’approdo alla legge elettorale proporzionale non dovessero manifestarsi ostacoli, non solo lo scontro tra Berlusconi e Salvini salirebbe ancora di tono, ma i due potrebbero ritrovarsi su sponde opposte, così come è accaduto a inizio legislatura, col governo presieduto da Conte e vicepresieduto da Di Maio e Salvini.
Insomma. Perlomeno a livello centrale tutto fa arguire che difficilmente Berlusconi e Salvini riprenderanno a marciare insieme. A meno che, a un tratto, i due scoprissero di apprezzarsi a vicenda, sulla falsariga di quando le redini del Carroccio erano nelle mani di Umberto Bossi, Questione di feeling, canterebbe Riccardo Cocciante.