Da tempo è in corso sotto i nostri occhi, eppure non vista, una rivoluzione silenziosa. È profonda, radicale, spietata, in atto su più fronti. La scopriremo quando ormai sarà compiuta. Non si tratta né di hackeraggio né di spionaggio né di nuovi brigatisti: è la rivoluzione delle parole, il cui traguardo potrebbe essere una nuova Babele.
Le lingue, si sa, sono materia viva, sempre in evoluzione, sempre pronte a cogliere le novità per poter far sì che siano trasmesse. Così si formano le parole, per indicare eventi, oggetti, processi, in modo che uomini e donne possano comunicare in maniera fedele alla realtà. Oggi nessuno più si sognerebbe di indicare un’automobile chiamandola «carrozza a vapore», come avvenne quando comparvero i primi avveniristici esemplari. Chi oggi dice «automobile» comunica benissimo l’idea di un oggetto comune. Certo, non ne indicherà il colore, la forma, la cilindrata e tutte le altre caratteristiche, ma se si racconta di un’auto (abbreviazione assai comune ancorché semanticamente imprecisa) che ha investito un pedone, tutti comprendiamo quel che è successo.
Bene, da un po’ di tempo le cose non stanno più così.
Accanto a una lingua che potremmo definire «generale», cioè utilizzata da tutti e comprensibile per tutti, grosso modo quella dei giornali e della tv, si stanno moltiplicando i linguaggi di settore. Un tempo erano appannaggio solo di certe categorie, per esempio i medici o gli avvocati, ed erano imposte dalla specificità dell’attività.
Oggi si affermano linguaggi (spesso impenetrabili) utilizzati per gli scopi più diversi e senza alcun collegamento a una professione. Per esempio, c’è una cerchia piuttosto ampia di ragazzini che si esprimono con il linguaggio in uso nel mondo dei videogiochi.
Loro vanno a shoppare le proprie skin preferite c’è chi sta troppando se viene spawnato però non deve essere nabbo altrimenti rischia di essere edshottato: basta questo per innalzare un muro nella comunicazione fra noi e i nostri figli o nipoti.
Ma ci sono anche altri esempi, come il linguaggio utilizzato da coloro che lavorano nel mondo dei computer o attraverso i computer. Un’esigenza che ha moltiplicato in ogni settore l’uso di anglismi: non c’è discorso, lezione, spiegazione che non preveda una mission per gli stakeholder nella consumer satisfaction come obiettivo del business plan. Fino al paradosso di pronunciare termini latini come plus e iter all’inglese («plas» e «aiter») roba che Cicerone e compagni ogni giorno si rivoltano nella tomba. Spesso quando a chi si esprime così si chiede di precisare in italiano il concetto che voleva comunicare si scopre che non sa farlo. Da cui due possibili spiegazioni: o ci stava prendendo in giro, oppure e più verosimilmente, non ha più la capacità di comunicare «a parole sue».
C’è poi un altro fenomeno, forse più sottile e pericoloso e cioè quando con le parole si tende a trasformare la realtà, meglio, a rappresentarla nel modo più conveniente per chi parla. Non si tratta delle tecniche o delle abilità fornite dalla retorica, bensì di una parziale o superficiale rappresentazione del mondo, che quasi sempre conduce alla falsificazione.
Il fenomeno era partito con l’affermarsi del cosiddetto politicamente corretto (politically correct in italiano): per esempio non si dice più cieco, ma non vedente; non si dice spazzino ma operatore ecologico; non si dice delinquente ma soggetto che ha sbagliato. Ne risulta una realtà che continua a essere quella di sempre, con le sue gioie e i suoi dolori, ma con persone che se ne fanno un’idea diversa, somigliante, ma diversa. Le conseguenze sono evidenti: in ogni ambito della vita dilagano ormai i cosiddetti negazionisti, gente cioè che nega l’evidenza. Per cui, tanto per stare ai nostri giorni, il Coronavirus non esiste; la sconfitta di Trump non è mai avvenuta e, per andare sui classici, la Terra non è rotonda e men che mai è esistita la Shoah. Il negazionismo dei nostri giorni non è tanto una posizione dettata dall’ideologia, quanto il tentativo di comunicare una realtà di comodo o comunque alterata, falsa per sfuggire ai problemi del momento o contrastare un avversario.
La volatilità delle parole sui social aiuta l’adattamento semantico ai nostri desiderata e favorisce la commistione fra gerghi, corruzioni di parole, neologismi. Poiché grazie al web siamo tutti editori e tutti scrittori, ciascuno si sta creando il suo linguaggio e attribuisce il suo personale significato alle parole. Ricordate «petaloso»? L’errore di un ragazzino fu trasformato in neologismo dal riverbero mediatico e invece di spiegare il significato del suffisso «oso» si preferì inneggiare alla nascita di un nuovo Manzoni.
Il termine per fortuna è scomparso dalla circolazione, ma la lingua fai da te è più viva che mai. I segnali sono inquietanti: basti pensare alle difficoltà di comunicazione del governo con i suoi Dpcm. Un nuovo tormentone è già partito dopo quello dei «congiunti» della primavera scorsa: chi sono i «parenti stretti» da invitare al pranzo di Natale? Babele non è lontana.