L’America ha votato. Purtroppo Donald Trump ha cambiato l’America. L’ha cambiata in peggio, realizzando un imprevedibile distanziamento sociale e culturale non solo dall’America dei Padri Fondatori, ma anche dall’America dei più recenti John Kennedy (1917-1963), Ronald Reagan (1911-2004) e Barack Obama. L’ha cambiata in peggio, Trump, rendendola una terra più tribale, nazionalistica, egoistica anche nei confronti delle sue genti.
La civiltà non è altro che una conversazione senza interruzioni. Questa era l’eredità. la lezione politico-morale che i Costituenti degli States avevano tramandato ai loro figli e nipoti, consegnando loro un sistema confederale basato sulla separazione dei poteri più che sul presidenzialismo, proprio per impedire la prevaricazione di un potere sull’altro.
I quattro anni di Trump alla Casa Bianca hanno inferto un pugno nello stomaco al corpo costituzionale redatto da Thomas Jefferson (1743-1826) e amici, dal momento che la conversazione civile tra alleati, oltre che - com’è auspicabile in democrazia - tra avversari che si legittimano reciprocamente, si è interrotta paurosamente, suscitando serie preoccupazioni sulla stabilità futura dell’edificio democratico made in Usa.
Trump è stato il primo inquilino della Casa Bianca dichiaratamente populista. Con il suo avvento alla guida della massima potenza mondiale è saltato l’ultimo muro tra il reality show e il palcoscenico politico.
Con lui il Fattore Identità, la cui ossessione costituisce il lievito naturale nel forno del populismo, ha toccato vette siderali, picconando senza intervalli i capisaldi del liberalismo e dell’illuminismo, vale a dire le ragioni della ragione contrapposte alle degenerazioni delle passioni.
Il nazionalismo trumpiano spesso ha assunto caratteri lussuriosi nel quadriennio in via di esaurimento. Non soltanto sotto l’aspetto del linguaggio, mai così hard da parte dell’incaricato speciale più potente del pianeta, ma anche o soprattutto sul piano degli atti concreti: dalla politica interna alla politica estera. Si sa. Il nazionalismo è lussurioso per natura e evoluzione. Cavalca ed eccita le frustrazioni, promette una felicità che non può garantire. Nutre quel desiderio, quel senso di appartenenza il cui sbocco finale non può che essere la solidarietà di gruppo, o meglio, l’approdo alla democrazia tribale. Due o tre gruppi sempre «contro» tra loro.
In fondo, noi siamo il feticcio che adoriamo. E se adoriamo noi stessi, se mettiamo noi stessi in cima a ogni scala di valori, la conseguenza è inevitabile: la pancia prevarrà sulla mente, l’interesse minuscolo oscurerà l’interesse superiore. E tutti si sentiranno protagonisti di una folla che (s)ragiona allo stesso modo, di una folla che dà sicurezza, protezione. Scrive il grande scrittore bulgaro Elias Canetti (1905-1994), premio Nobel per la letteratura, in Masse e potere: «All’interno della folla le distinzioni vengono eliminate e tutti si sentono uguali. E’ per il desiderio del momento magico in cui nessuno è più grande o migliore di un altro che le persone diventano una folla».
Lo spirito della folla costituisce - diciamo - la sottocultura del populismo. E da qui all’organizzazione dell’odio il passo è breve. E da qui ai timori per l’avvenire di una democrazia, non più fondata sulla tolleranza, il balzo può essere ancora più rapido.
Trump passerà alla storia per aver generato nella nazione che ha sempre conosciuto la democrazia la figura del grande uomo tribale, ossia di colui che rifiuta la lunga tradizione delle responsabilità che, ad esempio, aveva caratterizzato per decenni e decenni le relazioni tra Washington e l’Europa.
Mai, come sotto la presidenza Trump, i rapporti tra le due sponde dell’Atlantico sono risultati freddi e sospettosi. A Trump importava poco o nulla dell’Europa e l’Europa farebbe bene prima a poi a prenderne atto anche adesso, concordando una politica di difesa militare comune sulla falsariga della politica economica resa coassiale dopo il battesimo dell’euro.
Sì, perché il trumpismo rischia di non esaurirsi in una parentesi circoscritta. Il braccino corto nei riguardi del Vecchio Continente potrebbe incontrare insospettabili prosecutori anche nel futuro corso della diplomazia americana.
Insomma. Dalla gestione della pandemia al Medio Oriente, dal ripescaggio del protezionismo economico all’insofferenza verso i tradizionali alleati, dai muri interni ai muri esterni, il bilancio del quadriennio del Magnate è tutt’altro che esaltante. Ha spezzato i cardini della storica, costituzionale, cultura conservatrice americana. Ha dissestato lo stesso libero mercato introducendo elementi di capitalismo clientelare. Ha sbeffeggiato le autorità di guardia ai conflitti di interesse della Razza Potentona, non disdegnando pratiche nepotistiche: non è un mistero che figlio e figlia del Presidentissimo si siano mossi con il piglio di ministri in carica.
Ma, soprattutto, il Tycoon ha picchiato duro sul pilastro centrale della democrazia americana: il riconoscimento dell’avversario, la legittimazione reciproca tra i contendenti di una contesa elettorale. Di qui i propositi pre-elettorali trumpiani di non accettare il verdetto in caso di sconfitta, con la prospettiva di innescare un drammatico conflitto istituzionale, suscettibile di estendersi su piazza alle rispettive tifoserie.
Staremo a vedere se questa regressione verrà archiviata come una parentesi infelice o sarà all’origine di un’inedita offensiva anti-costituzionale o addirittura di un’involuzione autoritaria (a stelle e strisce). Tocchiamo ferro: se la democrazia Usa dovesse ammalarsi e surriscaldarsi, per contagio si potrebbero ammalare tutte le altre democrazie sparse per il mondo, forse anche nell’Unione Europea dove abbiamo la fortuna di vivere. Un nuovo Covid.