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L’enciclica di Francesco e l’economia di San Francesco

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, il 7 luglio a Bariincontro ecumenico per la pace

Le recensioni redatte dopo la lettura del testo non hanno modificato gli schieramenti, le tifoserie della vigilia.

Martedì 06 Ottobre 2020, 15:36

BARI - La terza enciclica di Papa Francesco non era ancora andata in stampa che già aveva diviso i pre-recensori tra bergogliani e anti-bergogliani. Le recensioni redatte dopo la lettura del testo non hanno modificato gli schieramenti, le tifoserie della vigilia. In realtà, le encicliche dei pontefici, tutte le encicliche, non si prestano mai a valutazioni immediate e definitive. Vanno lette e rilette, studiate e ristudiate. Non è raro, infatti, che con il passare degli anni, alcuni brani frettolosamente interpretati, classificati e archiviati in un modo, assumano invece un significato sensibilmente diverso, da sembrare, a volte, persino inedito. La stessa Rerum Novarum di Leone XIII (1810-1903), la prima enciclica sociale della Chiesa, ha vissuto parecchie stagioni interpretative.
Di Papa Francesco si conosce la diffidenza, per alcuni analisti sarebbe una vera e propria ostilità, verso il capitalismo. «Il mercato non è tutto», «La proprietà privata non è un valore assoluto», così alcuni giornali hanno sintetizzato nei titoli l’ultima enciclica papale «Fratelli tutti». E comunque Francesco non ha scritto che la proprietà privata va abolita, né ha pronunciato la scomunica in direzione del mercato. Certo, Bergoglio non può essere annoverato tra i fan dell’economia libera, ma non può neppure essere liquidato come uno stalinista smanioso di statalizzare pure la bottega di un barbiere. 

Anche perché il messaggio e la didattica di San Francesco (1182-1224), cui il papa argentino si richiama e si ispira, non hanno mai demonizzato il denaro e il profitto (da non confondere con l’usura). Non a caso, veniva fatto notare in passato, il termine profitto discende dal verbo latino proficere (che significa progredire, ottenere risultati), così come, su un binario concettuale parallelo, la parola procedura discende da procedere (che significa avanzare). Di conseguenza ogni procedura burocratica, nelle sue finalità, dovrebbe servire ad accelerare, non a ritardare, le decisioni. Ma non divaghiamo.

Per l’austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950), massimo studioso del capitalismo, i fondatori dell’economia scientifica vanno cercati tra i frati francescani: Bernardino da Siena (1380-1444) e, soprattutto, Antonino da Firenze (1389-1459). Costoro anticiparono pure i teologi della scuola spagnola di Salamanca, che nello studio del «prezzo» faranno da battistrada alla celebre scuola economica austriaca del secolo scorso. Altro che riproporre le tesi del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) e la sua teoria dell’etica protestante quale lievito originario dello spirito capitalistico.
E a Schumpeter era sfuggito di citare Bernardino da Feltre (1439-1494), il frate fondatore dei Monti di Pietà. Una sorta di precursore, questo religioso, della migliore moderna finanza. Per lui la moneta tesaurizzata era quasi un sacrilegio («capitale inagito»), guai a sterilizzare risorse che potrebbero essere utilizzate per scopi produttivi. Testuale, sempre Bernardino da Feltre: «Moneta potest esse considerata vel rei vel, si movimentata est, capitale». Traduzione: solo la moneta movimentata diventa capitale. Concetto ultrainnovativo, tuttora ignorato, sabotato o contestato, a distanza di secoli, da cattedre e da istituzioni economiche.

E, prima di Bernardino da Feltre, un altro teologo francescano, Pietro Di Giovanni Olivi (1248-1298) aveva, per così dire, ribaltato la linea di ostilità del suo tempo alla società di mercato (associata all’usura), linea di ostilità condivisa pure dal laico Dante Alighieri (1265-1321). Anche Di Giovanni Olivi si era chiesto se fosse sensato distinguere tra un prestito per il prestito e un prestito destinato a funzioni produttive. In questo secondo caso, per il frate, la ricompensa era più che giustificata.
Insomma. Forse è esagerato sostenere che il saio di San Francesco ha inventato il capitalismo, anche se il ruolo dei suoi discepoli nella creazione del primo vero sistema creditizio fu tutt’altro che modesto. Ma è indubbio che le lezioni, le testimonianze e le iniziative dei teologi francescani hanno impresso una svolta culturale al tema e al mondo dei quattrini, sovvertendo le credenze, le convizioni dell’epoca.

Tutto ruotava e ruota attorno al principio di solidarietà. Dev’essere volontaria o obbligatoria? Se dev’essere volontaria, come auspicava e dimostrava col suo esempio San Francesco, generosità e profitto possono convivere benissimo. Se invece la solidarietà dev’essere obbligatoria, beh allora il discorso cambia. Allora significa che l’esito del confronto tra l’allocazione competitiva delle risorse e l’allocazione politica delle medesime si sta decisamente orientando verso questa seconda strada. Allora significa che le ragioni del profitto (economia) devono piegarsi alle esigenze del consenso (politica). In fondo, la distinzione tra economia e politica è piuttosto semplice. L’economia si preoccupa di creare ricchezza. La politica si preoccupa di come e quando redistribuirla.

In realtà, le due finalità hanno la possibilità, e il dovere, di cooperare senza calpestarsi a vicenda. Purtropo il mercato parte in svantaggio, con un difetto, con un peccato originale: è cooperativo (perché in tanti collaborano per produrre beni utili e per migliorare le condizioni di vita), ma non viene percepito come tale.
Il Papa fa bene a ricordare sempre il significato e l’importanza della solidarietà, e non ha mai detto di volere una solidarietà obbligatoria, stabilita per legge. Il che lo pone, indipendentemente dal nome, nel solco della tradizione francescana.

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