Mentre tutti piangono Sergio Zavoli ricordando la sua voce, noi vogliamo ricordarne i silenzi. E farlo addirittura “trascurando” l’immagine di uomo vigoroso e veloce che fondò l’inchiesta televisiva insieme a Enzo Biagi. Zavoli fu soprannominato, con una punta di velenosa ironia, “il commosso viaggiatore”, ma oggi commuove davvero chiamarlo così in un’epoca di giornalismo tanto rapido e veloce da risultare paralizzante.
Perché ricordare, di Zavoli, i silenzi profondi? A questo punto sarebbe facile citare la frase di uno scrittore, rispettando la liturgia del coccodrillo. E, in questo caso, riferendosi all’americano Thomas Merton, potremmo dire che i silenzi di Zavoli sono stati più eloquenti “di tutti i discorsi degli uomini politici e del chiasso di tutte le radio del mondo”. Pensate il paradosso: Zavoli, giornalista radiofonico, prim’ancora che televisivo, quindi giornalista della parola, giornalista di parola, capace di raccontare attraverso i silenzi. Lui citò Merton nella sua inchiesta radiofonica sulle monache di clausura nel 1957, la prima in Italia; un’Italia all’epoca confessionale, dove penetrare in un convento era sacrilegio di sapore manzoniano.
Ma sono altri silenzi che riannodiamo intrecciando i fili della memoria. Quelli di un ricordo personale, insieme pubblico e intimo, affettuoso e ugualmente lucido nella sua scarnificata cronaca. Un giovane pubblicista, implume, timido, fresco di tesserino al cospetto del cronista durante il dibattito che prelude alla cerimonia di consegna del Premio Ilaria Alpi a Riccione. Giorni caldissimi, a cavallo tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1995. Pensare che siano trascorsi 25 anni mette un senso di vertigine. Il grande «cronista» Zavoli, l’inventore-animatore dell’inarrivabile Processo alla tappa del Giro d’Italia, aveva ripreso il suo cammino televisivo dopo gli anni della presidenza Rai e della direzione de Il Mattino di Napoli, era fresco il successo di un suo reportage “Nostra signora televisione” che nel titolo racchiudeva già tutto il succo della stagione berlusconiana agli albori. Il cronista è lì, seduto come un totem quasi inavvicinabile, gli organizzatori del premio gli hanno affidato la presidenza della giuria alla prima edizione. Il giovane pubblicista si avvicina al tavolo per presentarsi, insieme agli altri finalisti, e incrocia il suo sguardo. Uno sguardo che sembra già sapere l’infinità di chilometri percorsi dal ragazzo, insieme al suo operatore di ripresa, su una vettura semi-scassata che sbuffando divora al contrario le strade dello Stivale, sotto un sole che abbaia, da sud a nord per entrare in paradiso; uno sguardo che sa da sempre quanta fatica costi fare il giornalista “al Sud del Sud dei Santi” e Carmelo Bene ci perdonerà per la citazione impropria. Zavoli ha da offrire il suo sguardo. E il suo silenzio. Lo stesso che ha gettato su tutti gli interlocutori di una vita; lo sguardo e il silenzio dell’uomo che scopre l’uomo, lo indaga e ne comprende le ragioni e i torti: dalla suora di clausura al capo terrorista, al giovane pubblicista che racconta, appunto, quanta fatica costi fare il giornalista al Sud e quanto bello sarebbe farne un’inchiesta (allora la battaglia sul precariato era ancora tutta da inventare).
Il cronista scioglie il suo silenzio, quel silenzio che insegnava le parole, in un applauso sincero. Forse Zavoli aveva ancora negli occhi il suo televisivo “Viaggio nel Sud” andato in onda nel 1992, quelle immagini dei treni lenti che lo portavano a Mezzogiorno dentro “il rimorso italiano” e le sovrappone alle parole del ragazzo, apprezzandone l’ingenuità senza però fare sconti, anzi tirando fuori un sorriso e una battuta burbera: “Anche se leggi un telegiornale locale non devi mai chiudere dicendo: è tutto. Ricordati che è solo la minima parte di quello che avresti potuto dire”.