Era il 25 febbraio 2015, mancavano ormai pochi sgoccioli alla fine della seconda legislatura di Nichi Vendola. Il quale, già dal 2014, aveva suggellato la staffetta con l’allora sodale Michele Emiliano (negli anni a venire se le sarebbero date di santa ragione) per lasciargli lo scettro da governatore nella Regione sotto il vessillo del centrosinistra. Sugli spalti della ex sede del consiglio regionale, in via Capruzzi, una delegazione femminile (Consulta, commissione Pari Opportunità) attendeva in silenzio l’esito delle votazioni sulla riforma della legge elettorale.
Riforma giunta come da tradizione in «zona cesarini» dopo cinque anni nei quali raccolte di firme, petizioni popolari, proteste davanti al consiglio regionale non erano bastate a convincere gli uscenti che fosse il caso di rendere obbligatoria la doppia preferenza uomo/donna nelle urne e l’alternanza nelle liste dei partiti. Occhi puntati in alto, al quadrante che segna l’andamento dello scrutinio segreto. Minuti di silenzio e trepidante attesa. «Bocciata». Vendola, schifato, esce dall’Aula, non si sa se più inviperito per l’ennesima batosta «maschilista» inflitta dal parlamentino pugliese o, piuttosto, per le soglie di sbarramento (quelle, invece, approvate eccome) che stabilivano un 4% per i partiti in coalizione e un più alto 8% per i partiti fuori coalizione. La «casta» pugliese, questo si disse, provava così a difendersi dall’onda dei grillini (ai quali quell’8% nelle successive votazioni del 2015 avrebbe fatto un baffo, non impedendo l’elezione di una folta schiera di consiglieri… altri tempi).
Da allora quel vulnus nel consiglio regionale più «maschile» d’Italia non è stato mai risolto. E ci sono voluti prima il monitoraggio del ministro degli Affari regionali, Boccia, sull’alternanza uomo/donna nei parlamentini regionali (roba da far venire i brividi rispetto alla Germania e ai paesi Ue) e poi una letteraccia del premier Conte (garbata ma ferma, come nello stile) al governatore Emiliano per «risvegliare» il Consiglio regionale pugliese dal sonno in cui era sprofondata la parità di genere: «O vi adeguate, o vi commissariamo prima delle elezioni»…
Ora, messo nell’angolo l’istinto atavico alla sopravvivenza politica dei «maschi» che pullulano anche nella nuova sede del Consiglio regionale, col primo via libera della commissione Statuto, sarà l’Aula a doversi esprimere sulle proposte di legge arrivate e su quella, che ne fa sintesi, della Giunta. Come da tradizione, just in time, ovvero a poche settimane dal voto per le regionali 2020. Andrà meglio questa volta? Di certo c’è che i partiti sono, non da ora, al lavoro sulle liste per le votazioni di settembre e non sarà una passeggiata, nel caso la riforma passi, rimettervi mano per annunciare a qualche maschietto di dover far spazio alla femminuccia nelle candidature, pena l’annullamento della lista. Né sarà facile, per tutti i partiti (perché su questo tema centrodestra, centrosinistra, gialli, rossi o verdi, pari sono) trovare le donne «candidabili», ovvero in grado di trainare voti. E non sarà facile perché il vulnus non è solo nelle istituzioni elette della politica, ma nella stessa base che compone i partiti o i movimenti politici.
Escluse dalla politica, mentre il mondo delle imprese e la stessa società correvano da un’altra parte; impedite (con le dovute eccezioni) ai vertici dei partiti o agli incarichi dirigenziali degli stessi mentre nei Paesi a noi più vicini diventavano Capi di Stato o conquistavano il premierato, escluse finanche da quella cosiddetta «società civile» cui la politica spesso si rivolge e attinge per «rifarsi il look» dinanzi agli elettori, che siano intellettuali, medici, avvocati o manager: ancora oggi, nel 2020, la vita delle donne in politica è davvero difficile. E, tanto per restare in Puglia, a nulla è valsa nemmeno l’ondata anti-casta che portò al famigerato taglio dei costi della politica: la riduzione del numero complessivo dei consiglieri regionali (da 70 a 50), avvenuta qui come nelle altre regioni, non ha comportato un aumento nella percentuale di donne elette.
Eccoci, allora, di nuovo alla prova del nove che – salvo accordi diversi tra tutti i gruppi consiliari – dovrà passare dal voto segreto. Quello dietro il quale si sono celati in più occasioni sia i «detrattori» della parità, nel timore di perdere voti nell’altra metà del cielo, sia i benpensanti, quelli che si spellano le mani quando le donne rivendicano riforme ma poi spingono il bottone del «no» quando si tratta di votare a loro favore. Sarebbe già un risultato se tutti i gruppi, a prescindere dall’esito del voto finale, rinunciassero preliminarmente alla segretezza. Sarebbe un segnale in controtendenza rispetto a quella «retromarcia cavernicola» del 2015, come la definì l’allora governatore. E chissà che questa non sia la volta buona per smetterla di parlare di un tema, quello dei generi sessuali nella politica, che la storia – Nilde Iotti docet - ha superato da tempo.