Secondo lo scrittore francese Paul Valéry (1871-1945) «il grado di una civiltà si riconosce dal numero di contraddizioni che accumula». Di primo acchito, l’affermazione può sembrare come minimo eccentrica, se non provocatoria. In realtà radiografava, già un secolo fa, le due condizioni, e anche le due opposte visioni, in cui si dibatteva, e si dibatte ancora, l’intera umanità. Da un lato i tifosi dello stato mobile e conflittuale, dall’altro i sostenitori dello stato stazionario e stagnante. Lo stato mobile e conflittuale non sarà il migliore dei mondi possibili, ma di sicuro - come dimostra la storia - ha prodotto un progresso economico, morale e giuridico (vedi la lotta contro la schiavitù e le discriminazioni razziali) impensabile fino a un paio di secoli addietro. Viceversa, lo stato stazionario e nostalgico neutralizza la paura suscitata dalle conquiste scientifiche e dalle relative applicazioni tecnologiche, ma di fatto poi genera uno stato reazionario, contrario a ogni forma di progresso.
Ma come si fa a distinguere un soggetto conservatore (proclive allo stato stazionario) da un soggetto progressista (favorevole allo stato in movimento)? Ecco come rispondeva l’economista Maffeo Pantaleoni (1857-1924) nei suoi Erotemi di economia: «Chi si oppone a un’innovazione è un conservatore, cioè un conservatore dello status quo, sia poi, questo, politico o sociale o religioso o etico o tecnico, non importa. Chi propone un’innovazione, sia questa una riforma dell’ortografia della musica o del codice di commercio o della produzione del carburo di calcio o dell’allevamento del bestiame o della telegrafia o della costituzione politica o dei rapporti tra i sessi, è un progressista».
L’Italia, però, è un Paese singolare, dove, spesso, diversamente dalla distinzione operata da Pantaleoni, chi vuole smuovere le acque, accettando la logica della competizione/concorrenza, passa per essere un cocciuto conservatore, mentre chi non vuole toccare nulla, sposando la linea dell’immobilismo assoluto, risulta un moderno progressista.
Conservatori, o addirittura reazionari, si trovano e si annidano dappertutto. Tutti spaventati dalle novità e dalle inevitabili contraddizioni che ogni scoperta e ogni sfida comportano. Epperò è merito delle contraddizioni lo spettacolare incremento del tenore di vita, con il significativo allungamento esistenziale delle persone, registrato a partire dall’Ottocento. Ma i più tendono a sottovalutare, a sottostimare questi poderosi progressi della civiltà, preferendo dire no ad ogni cambiamento, nel ricordo di una smarrita e presunta età dell’oro, che tale non è mai stata, anzi tutt’al più andrebbe archiviata come misera era di piombo.
Cosa significa dire no all’Europa se non rimpiangere le stagioni autarchiche, statiche e ostili alle innovazioni? Cosa significa scendere in piazza, sognando il ritorno alla lira, se non voler rivivere momenti, la cui riproposizione scatenerebbe, oggi, una spirale di tragedie economiche vicine a parametri sudamericani? Bisogna avere il coraggio di spiegare bene fatti e cose.
Chi scende in piazza, vedi il movimento arancione capitanato da un generale in pensione, spesso lo fa mosso dalla paura del nuovo e dal rimpianto dell’immobilismo antico, non già spinto dal desiderio di modificare in meglio lo status quo. Per migliorare lo status quo è necessaria la società delle contraddizioni, la società del conflitto (pacifico, si capisce), la società della competizione. Invece, complice la pandemia da covid 19, alle tradizionali paure del mondo industriale si vanno aggiungendo le ultime paure del mondo post-industriale, messo sul banco degli imputati per la sua «genetica» e «conclamata» incapacità di elaborare e fornire soluzioni. Quasi che le soluzioni si trovino sulle bancarelle dei mercati come la frutta, o che siano sempre prodighe di effetti immediati e salutari. Purtroppo, molti seguitano a confondere le soluzioni (per loro natura provvisorie, ipotetiche, imperfette, incomplete e a volte fallaci) con le utopie (per loro natura opposte, nella fase realizzativa, ai princìpi perfettistici originari).
La pandemia si è rivelata sùbito un frullato di paure e di pretese. Paure perché la sindrome da Anno Mille, ossia l’incubo del finimondo, è connaturata da sempre ai sentimenti e alla psicologia di uomini e donne. Pretese perché ai cattedratici della scienza vengono richieste risposte esaurienti su qualunque imprevisto, specie se di tipo sanitario. Il che, ovviamente, esula dalle umane capacità.
La pandemia avrebbe dovuto suggerire ai responsabili della cosa pubblica di scongiurare ogni rischio di resurrezione dello stato stazionario e paternalistico, di invadenza ulteriore del dirigismo burocratico, anche nei casi in cui alcune scelte politiche scaturissero da intenzioni protettive. Si sa, infatti, che Protego ergo obligo, il nesso tra protezione e obbedienza, di hobbesiana intuizione e di schmittiana schematizzazione, quasi sempre è inestricabile, e si traduce nella regressione dalla cittadinanza alla sudditanza.
Invece, nonostante i propositi tesi ad accorciare il raggio d’azione della burocrazia, è impressione assai diffusa che il protagonismo dei signori dell’interdizione risulterà ancora più tracimante a pandemia conclusa.
Ecco perché destano preoccupazione tutte quelle manifestazioni orientate a riproporre una sorta di autarchia culturale, oltre che un autoconfinamento, un lockdown economico-produttivo. Il progetto di unire l’Europa, che risale a Carlo Magno (742-814), non è risorto, dopo la seconda guerra mondiale, soltanto nel segno della cooperazione economica, ma è rinato innanzitutto sulla base delle affinità culturali tra le nazioni del Vecchio Continente da sempre in armi tra loro.
Si obietta. Però certe manifestazioni anti-europee esprimono istanze giuste perché originate da insoddisfazioni reali. Istanze giuste? Insoddisfazioni reali? Provate a domandarvi dove sarebbe oggi l’Italia, dopo il coronavirus, senza gli aiuti europei (Bce in primis) e senza la moneta comune.
Troppe contraddizioni? Troppe incongruenze? Può darsi. Ma l’alternativa è la soluzione statica, cioè la società cimiteriale. Questa vogliamo?