Al Liceo Orazio Flacco di Bari, anzi al «Flacco», come, sbrigativamente, dicevamo e dicono ancora, era abituale sentir chiamare l’ora di lezione con il nome del docente della disciplina, soprattutto se di commendevole fama e illustri benemerenze didattiche. E ve n’erano al Flacco! Se, puta caso, vedevi un compagno di scuola stazionante all’angolo di Via Pizzoli che esibiva preoccupazioni con corredo di somatizzazioni e gliene domandavi la ragione, potevi sentirti rispondere che «oggi mi aspetta Canfora». Se un altro girovagava con intenzioni di marinare la scuola, cercandone il coraggio in giri sempre più ampi intorno all’isolato, potevi scommettere che aveva un compito in classe con Altomare.
Era come un appuntamento. Era noto che gl’illustri docenti non ammettevano impreparazioni o lacunose risposte e si sapeva che la loro chiamata alla cattedra era fatale come l’avvento delle stagioni e delle feste comandate. Altrettanto implacabili i redde rationem con D’Erasmo o Ricapito o con Scionti o la Flora e Medori.
La disciplina didattica, dunque, era richiamata col nome del suo insegnante: D’Erasmo per l’Italiano, Ricapito o Medori per Latino e Greco, l’Amendola per Scienze e via citando i registri della sala Professori.
E c’era Michele Lovero, professore di Storia e Filosofia. Metto le maiuscole come figuravano sulla pagella e sui «quadri» del giudizio scolastico finale: avere un’interrogazione con lui era un appuntamento, sì, ma speciale e piacevole. Le sue lezioni erano ariose e originali, nuove, per così dire. Il distacco ironico, ma pur sempre dottorale, che informava la disquisizione, incantava.
L’identificazione della disciplina con il suo insegnante era prova del rapporto umano tra la persona docente e la persona discente. Umano fino al punto dell’inconscia identificazione con il maestro della cultura con lui condivisa.
È una regola non scritta: per mezzo del rapporto personale di una scolaresca, di una minuscola comunità di cittadini discenti, cioè, con un maestro che rinnova il «peripato», appena assume la guida del dialogo, si definisce un’esperienza esistenziale sia degli alunni che del docente. Questi, il maestro, avrà spiegato agli studenti che studiando e discutendo, anche oggi, passeggiano in quella parte del giardino del Liceo, ad Atene, in cui Aristotele era solito tenere le sue lezioni, e dove potevano riunirsi a discutere i suoi allievi. Questa è la scuola.
Seneca ricorderà, più tardi, che «Non scholae, sed vitae discimus», «non per la scuola, ma per la vita studiamo». Vero, ma a scuola bisogna andarvi, occorre frequentarla, viverla, come un luogo fisico. Mi rendo conto che l’edilizia scolastica italiana non può ospitare gli studenti per replicare le ariose passeggiate nei propilei ateniesi: la Repubblica costruisca scuole perché non può sottrarsi all’obbligo politico, etico, culturale, sociale, di educare, istruire, liberare dall’ignoranza i suoi cittadini, i giovani che cresceranno imparando «a scuola» come comportarsi nella vita. E «a scuola» vuol dire, anche, condivisione di un luogo, pur non ariosamente sublime come il peripato aristotelico, ma, necessariamente, adeguato a ospitare fisicamente la comunità scolastica.
Le scuole italiane, dall’asilo infantile alle università , a causa della pandemia, sono chiuse, interdette all’attività didattica che si è tentato di trasferire nella tecnologia informatica e naviga nell’oceano tecnologico che consente scarsi vagabondaggi e maldestre manovre, ma, soprattutto, priva drasticamente l’insegnamento della indispensabile forza del rapporto umano, isterilito nella pratica anonima e scarsamente affascinante di protesi elettroniche del tutto prive di attrattiva ed emozione umana. La comunità studentesca naufraga pietosamente negli scogli delle tediose sirene informatiche e subisce la grigia violenza dell’imposizione tecnologica come un ciclope ancora più ottuso di Polifemo. A molti naviganti sembra di perpetuare i video-giochi che erano prima marginalizzati nelle ore di svago. L’aedo elettronico non è ancora nato e, al tempo, gli lasceremo il compito di archiviare e custodire i saperi, ma esigeremo che sia il docente a passeggiare nei giardini simbolici della cultura che vogliamo tramandare. I computer non passeggiano.
Sono atterrito dalla possibilità che neanche a settembre si possa sperare che lo Stato si organizzi per la ripresa dell’attività scolastica e universitaria.
Va evitato il fallimento che ha colpito la presunzione francese di riaprire 70 scuole senza, evidentemente, avere la forza organizzativa per farlo: le hanno precipitosamente richiuse.
In Italia hanno fatto in modo di riaprire bar, caffè, ristoranti, bistrot, osterie, «fast food» chalet, baracchini, pizzerie, gelaterie e tutto quanto possa facilitare il riavvio della, cosiddetta «movida». Uso il computer correttamente, lo uso per consultare rapidamente e con precisione il significato di questa parola un po’ scioccamente ammiccante: termine di origine spagnola usato per la particolare situazione di animazione, divertimento e vita notturna giovanile in una città.
Dunque, lo Stato ha giustamente pensato al lavoro dei gestori di bar, caffè, ristoranti, bistrot, osterie, «fast food» chalet, pizzerie, gelaterie e quanto possa facilitare il riavvio della «movida». E, a parte le mascalzonate di bande di avvinazzati incoercibili che non rispettavano alcuna norma di sicurezza e di buona educazione, sembra che non si possano lamentare danni alla pubblica salute.
Ho il diritto di chiedere che lo Stato riesca, con la stessa premura ed efficienza, a riaprire le Scuole e le Università. Dopo la ridicola cerimonia dei prossimi esami di maturità, da cittadino, chiedo che ci si metta al lavoro per riportare i maestri in cattedra e gli alunni nei banchi, se proprio non sarà possibile edificare in tutta la bella Italia i giardini del Liceo di Atene. Progettiamoli per un domani senza pestilenze. Nei Licei il nome del professore indica anche la disciplina che insegna. Bei tempi.