Pare che ci siano ben 5 milioni di italiani all’estero. Non tutti, ma molti cercano di rimpatriare. Per attraversare lo spazio che li divide dalle loro dimore, i treni sono quasi impraticabili dunque l’aereo rimane il mezzo migliore. Ma fra cancellazione di voli e ritardi annunciati o improvvisi, passare per gli aeroporti è una piccola odissea. Io l’ho fatto dal Nord al Sud, da Bruxelles a Bari e lì mi ha preso l’angoscia: enormi spazi vuoti, corridoi predisposti per lunghe file fantasma, silenzio assoluto, negozi tutti chiusi, lunghissimi tapis roulant che vanno da soli macinando un rumore sordo e lugubre anch’esso. E’ incredibile vedere desertificati questi luoghi tipici della frenesia del viaggiare, delle folle vocianti, delle code interminabili, degli spostamenti frettolosi, dello shopping compulsivo. Niente, tutto finito. Ora ci sono pochissimi passeggeri, tutti con mascherina-museruola, guanti, a volte tute bianche o impermeabili trasparenti, quelli per la pioggia, ora usati per difendersi dal contagio.
Sono quasi tutti single, salvo qualche sparuto gruppetto di giapponesi; e tutti hanno un’aria spaesata, spaurita, stralunata. Si ciondola da un desk all’altro, da una sedia all’altra sempre a distanza di sicurezza e sempre in questo silenzio tombale. Ogni tanto gracida dagli altoparlanti la voce di una hostess che ripete fino alla nausea di attenersi alle distanze di sicurezza o annuncia il prossimo ritardo o cambio di gate. Ma tutti tacciono. Le saracinesche dei negozi tirate fin giù danno un’altra sensazione di morte. Lì dove furoreggiava il consumismo opulento con i suoi innumerevoli prodotti, ora tutto tace, tutto è buio e vuoto. Anche a guardar fuori si ha una sensazione di morte: tutti quegli aerei fermi, pigri e inattivi, in attesa di potersi levare in volo, chissà quando, chissà per dove. Il danno economico è palpabile: il commercio, le compagnie aeree, i servizi vari che ruotano intorno a un grande aeroporto, tutto fermo, tutto in crisi di astinenza dai guadagni. Ma si parte? Non si parte? La precarietà è la regola. Ed accresce l’ansia di chi non vede l’ora di tornare a casa, dai suoi affetti. Non potrà abbracciarli. Ma starà con loro, in casa. Mentre fuori la nostra bella e grande civiltà industriale, tecnologica, scientifica, post moderna è paralizzata, svuotata, impoverita, umiliata. E negli aeroporti, come nelle grandi città, fa mostra della sua tristizia. Tutti i passeggeri sono fermi in attesa di poter partire. Ma si vede che sono in fuga verso casa, per rintanarsi nelle loro dimore, unico rifugio possibile dal coronavirus che sembra inseguire chiunque e ovunque. Non servono i confini (inutile chiuderli); si spera che serva solo chiudere la porta di casa, per lasciarlo fori a impazzare nelle strade e negli ospedali. E anche nei luoghi dell'incoscienza dove si vuol continuare a divertirsi come se nulla fosse. E invece non è il nulla. Anche se tutt’intorno si vede il nulla: monumenti, parchi, negozi, gallerie tutto annullato in un attimo.
Una volta arrivati a Roma da tutte le capitali europee (Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Londra soprattutto, da dove tanta gente fugge dal “gregge di Johnson”…) si risentono le voci: chi telefona ad alta voce, chi chiacchiera a un metro di distanza, chi ordina all’unico bar aperto, chi addirittura suona il pianoforte. Un giovane musicista con tanto di mascherina accarezza delicatamente la tastiera e diffonde nei grandi spazi dell’aeroporto di Roma una musica dolce che stempera e migliora l’atmosfera surreale. Siamo finalmente in Italia e la vita si sente. Limitata, ovattata, ma c’è. E c’è anche la confusione, per le autocertificazioni: questa va bene, quella no, quell’altra deve venire dall’ambasciata italiana del paese di provenienza, questa è in inglese, ci vuole quella in italiano, quella del Ministero dell’Interno, non quella ma questa è valida perché è l’ultima del Ministero della Salute, no ci vuole quella della regione di appartenenza, no ci vuole…. Il solito nostro disordine burocratico. Ma, col disordine dei ritardi e con lo scompiglio dei voli, si cerca di aiutare tutti: chi deve andare a Catania, chi ad Ancona, chi a Bari. L’Alitalia ha ritardato i voli nazionali, proprio per “ricogliere” tutti i connazionali che venivano, in orari diversi, dalle diverse capitali e portarli finalmente a casa, nelle periferie italiane. Come sempre, il nostro è un disordine umanitario! Il viaggio così diventa sempre più complicato, difficoltoso e, finché non si è a casa, ci si sente inseguiti e braccati dal virus. Così la piccola odissea va avanti per ore e ore fra orari, ritardi, certificazioni, mascherine, distanze di sicurezza, controlli di polizia, sguardi persi, mezzi di fortuna per raggiungere le periferie delle periferie ed essere a casa. Solo fra le quattro pareti domestiche ci sentiamo al sicuro. Itaca finalmente!