Che il coronavirus sia destinato a rivoluzionare il nostro modello di vita, lo sanno pure su Marte. Abitudini, usi, costumi, servizi, professioni, tendenze, lavori verranno rivoltati come calzini. Ma si frantumeranno pure quei dogmi che fino a un paio di mesi fa parevano più inflessibili di una credenza talebana? Ad esempio. In Italia riceverà ancora udienza e audience il credo trasversale dell’autonomia differenziata, che consentirebbe a regioni del Nord di trasformarsi, quasi, in mini-stati indipendenti? Sì, perché una cosa - oltre all’ostruzionismo burocratico italiano contro le mascherine - ci ha insegnato la super-emergenza importata dalla Cina: in un mondo sempre più interconnesso non esistono problemi circoscritti o circoscrivibili a una singola nazione, figuriamoci a micro-realtà territoriali. Tutte le grandi questioni, ormai, sono di portata globale e richiedono, com’è il caso della pandemia in corso, risposte planetarie. Immaginare di poter affrontare la sfida di un flagello epidemico con la logica delle piccole patrie o, peggio ancora, con il mantra del localismo estremo, significa volersi candidare al suicidio assistito, perché solo uno spirito intriso di pessimismo cosmico potrebbe puntare le sue fiches di speranza sulla ruota dell’autonomismo regionale.
La verità è che nessuno Stato, da solo, è in grado di sconfiggere il nemico invisibile che ha costretto miliardi di persone agli arresti domiciliari. Non sono autosufficienti nemmeno super-colossi tipo Stati Uniti e Cina che, non a caso, non hanno disdegnato gli aiuti da parte del resto del mondo. Per altro, i primi ad ammettere, indirettamente, l’impraticabilità e il fallimento dell’autarchia economico-sanitaria, sono innanzitutto i sovranisti. Succede quando costoro - in preda alla sindrome rancorosa del beneficato - si scagliano contro la tanto vituperata Europa giudicandola più micragnosa di una comitiva di genovesi e pretendendo, di conseguenza, una generosità a oltranza e senza condizioni.
La verità è che l’Europa sta facendo e ha fatto più di altri per l’Italia contagiata, ma il suo contributo, oltre a essere ignorato come l’ultimo dei portieri di riserva in panchina, non basta mai, specialmente per i nazionalisti. Nazionalisti che, in tal modo, cercano a fatica di coprire l’anacronismo, per giunta autopunitivo, delle loro tesi.
Ma anche rispetto al ruolo dello Stato centrale, il verbo del sovranismo regionale ha iniziato a balbettare come uno scolaro impreparato. Non si può, da un lato, invocare più autonomia territoriale e dall’altro chiedere a Roma di risolvere tutti i problemi, intervenendo, senza mai chiudere il portafogli, a sostegno di chi è in difficoltà. Non si può giocare, e tanto meno stravincere, su tutti i tavoli.
Il coronavirus, oltre ad aver spezzato molte vite umane, ha comunque stroncato le aspettative di tutti i tifosi dell’autonomia rafforzata. Sono rimasti in pochi a suonare la grancassa per la semi-scissione del Lombardo-Veneto, segno che l’Italia sarà pure la nazione più sgangherata, anarchica e ingovernabile del globo, ma, tutto sommato, è più rassicurante lei di qualsiasi altra area perimetrale più ristretta. Con buona pace del federalismo spinto, che finora si è giovato di una sorta di percezione selettiva, volta a non vedere ciò che non si intendeva vedere. «Un’intelligenza acuta - notava lo scrittore Saul Bellow (1915-2005) riferendosi agli intellettuali facili alle sbandate ideologiche - può tradursi in ignoranza quando più è profondo il bisogno di un’illusione».
Infatti. Il coronavirus ha smascherato l’illusione (fatale) di ventuno modelli sanitari. Ne ha dimostrato le contraddizioni, l’insostenibilità. Il coronavirus ha messo in risalto l’urgenza di una centralizzazione delle politiche per la salute, sia perché è inconcepibile la frammentazione delle scelte per la sanità sia perché neppure il ricco Nord si è rivelato capace di badare da solo ai lazzaretti della nuova peste.
La Lombardia della salute si è ritrovata fuori pista, all’improvviso, quando nessuno se lo aspettava. Il suo esaltato sistema sanitario territoriale di prevenzione, dotato sulla carta della potenza di una Ferrari, non è riuscito a schivare il cigno nero spuntato a sorpresa sul rettilineo. Ha rimediato la figura di una vecchia utilitaria scassata, con i freni fuori uso. È andata meglio al confinante Veneto, anche perché Luca Zaia, il suo pilota, si è rivelato, nelle manovre decisive, più lucido e tempestivo del collega Attilio Fontana.
Risultato: il regionalismo hard di Lombardia e Veneto oggi non eccita più nessuno in quelle zone. Pochi mesi ancora e dell’autonomia differenziata non si ricorderà più nessuno. Non è da escludere neppure che, strada facendo, siano proprio Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna a cestinare platealmente il programma ultra-federalistico che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto mettere il turbo alle loro macchine regionali.
Piuttosto. Siccome il pendolo tra le opposte visioni in Italia oscilla di solito più che altrove, bisogna mettere in preventivo, e, diciamo noi, auspicare una riforma, in senso contrario allo status quo, dei poteri di Stato e Regioni. Del resto, se Matteo Renzi, anziché condurre la sua sfida referendaria (dicembre 2016) solo sul binario dell’abolizione del Senato, l’avesse portata avanti soprattutto sulla strada del riacquisto di competenze da parte dello Stato centrale nei riguardi delle Regioni, probabilmente quella contesa avrebbe prodotto un esito diverso.
In ogni caso, la tragedia del coronavirus è destinata a incidere con forza sul bilanciamento dei poteri tra Stato e Regioni, specie se si dovesse radicare la volontà, pressoché generale, di irrobustire l’apparato sanitario pubblico. Anche perché, in materia sanitaria, il Sud è messo assai peggio del Nord e se il progetto di autonomia differenziata avesse preso il volo, per il Mezzogiorno sarebbe stato più buio che in piena notte.
Memento. Il ritorno della sanità sotto la regia dello Stato nazionale non dovrebbe comportare il sequel di quell’orgia normativa che negli ultimi decenni ha mandato in orgasmo solo giuristi e amministrativisti vari, gli unici a festeggiare per i falli reciproci tra poteri centrali e periferici. Il ritorno, da protagonista, dello Stato in campo sanitario dovrebbe avvenire all’insegna di una bella dieta normativa, visto che finora la pianificazione da iper-legislazione ha assicurato, tra l’altro, molto lavoro alle procure della Repubblica.
Ma non corriamo troppo. Accontentiamoci dello stop all’autonomia differenziata che non soltanto avrebbe contribuito ad allontanare mezza Italia dall’Europa, ma avrebbe soprattutto separato l’Italia dall’Italia.