Milioni di cristiani, in ogni angolo del mondo, ieri a mezzogiorno hanno recitato con papa Francesco il Padre Nostro, la preghiera che Gesù stesso ha insegnato ai suoi discepoli. Qualche osservatore disincantato (ce ne sono sempre di nuovi e più agguerriti) ci spiegherà, non senza evocare scenari da medioevo prossimo venturo, che questo è l’effetto della globalizzazione. È il miracolo della moderna comunicazione che consente quello che sino a pochi anni fa era semplicemente impensabile. Almeno quanto lo è la pandemia di coronavirus che sta mettendo in ginocchio l’Italia, l’Europa e il resto del mondo.
Ma che si inventa il Papa dei poveri? Propone a tutti i cristiani «di ogni Chiesa e Comunità, di ogni età, lingua e nazione», di compiere il gesto più povero: pregare. E di farlo insieme, perché il «noi» conta più del nostro «io». Perché così siamo un popolo in preghiera che supera ogni divisione e che si ritrova unito a chiedere «misericordia per l’umanità duramente provata». E non dimentica nessuno dei destinatari dell’intercessione: «Preghiamo per i malati e le loro famiglie; per gli operatori sanitari e quanti li aiutano; per le autorità, le forze dell’ordine e i volontari, per i ministri delle nostre comunità».
Ecco, Francesco ha messo in scena, con l’aiuto di tutto il mondo cristiano, la più antica delle pratiche di intercessione, cioè del porsi e dello stare in mezzo, come ci ricorda la radice latina: inter (in mezzo) – cedere (andare, passare). Dunque, il Papa ha posto l’azione di tutti i cristiani dentro la storia, cioè dentro il nostro qui ed ora. Dentro la pandemia e dentro il suo macigno di dolore e di morte. Non tutti i cristiani hanno o avranno questa consapevolezza, ma con la loro preghiera hanno partecipato sino in fondo al tormento dell’umanità e alle sue angosce. Ed è quello che conta per le donne e gli uomini di fede: la fraternità, la condivisione, la solidarietà, la tenerezza. Perché nessuno si senta solo e abbandonato. In una terapia intensiva, in un letto di dolore, in una famiglia angosciata e colpita dal lutto, in una corsia d’ospedale.
Pregare, dunque, per essere più umani. Sempre più umani, anche quando gli algoritmi governano la nostra vita, quando viviamo nell’attesa spasmodica dei bollettini della pandemia, quando speriamo che qualcuno in tv annunci che il picco della pandemia è stato raggiunto e qualcun altro ci dica che sì, un vaccino è stato scoperto.
Con le sue parole che sono altrettanti scalini fra Cielo e Terra, il Padre Nostro non solo denuncia la nostra povertà, ma rassicura l’umanità intera sullo sguardo benevolo del Dio del Nuovo Testamento, il Dio che ama e non si erge come giudice che punisce e manda il male per castigare l’umanità peccatrice.
Un’ultima annotazione: il Papa ha recitato il Padre Nostro, anzi il Pater Noster, in latino, l’antica lingua della globalizzazione del cristianesimo. E lo ha fatto a favore di telecamere, raggiungendo con tutti i mezzi della moderna comunicazione, compresi quelli digitali, ogni angolo del mondo. Il latino dei cristiani è stato così ascoltato da milioni di persone. Forse anche da tanti increduli o non credenti. Meraviglia della globalizzazione, di ieri e di oggi.