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La salute non ha prezzo ma il debito ci è costato caro

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

La salute non ha prezzo ma il debito ci è costato caro

Plauso al governo per aver messo i primi quattrini sul piatto per cercare di rianimare un Paese debilitato dall’effetto virus. Ne serviranno molti altri

Giovedì 12 Marzo 2020, 15:04

Un tempo i governi si indebitavano (prevalentemente) per pagare le guerre. Poi si sono indebitati per sostenere i costi dello Stato sociale. Infine si sono indebitati per finanziare spesso sprechi e privilegi vari. Inutile dire che corre una bella differenza tra il sostegno (doveroso) allo Stato sociale e il sostegno (oneroso) a politiche bellicistiche/parassitarie. Sta di fatto che il debito, come ammoniva l’economista Adam Smith (1723-1790), costituisce un grande potenziale di rovina per i governi, anche se un presidente Usa con il gusto del paradosso, ossia Ronald Reagan (1911-2004), ribatterà più tardi che quando il debito è grande sa camminare da solo.
Stavolta nessuno avrà da ridire sui 25 miliardi di euro stanziati da Giuseppe Conte per contrastare i disastri (non solo umani e sanitari) provocati dal coronavirus. La stessa Europa ha dato il suo assenso in merito. Analoghe misure anti-virus sono in arrivo nelle altre nazioni dell’Ue. Sì, perché di fronte a un’emergenza come quella scatenata dal morbo cinese, non c’è Fiscal Compact che tenga. Ci troviamo di fronte a una variante inedita di quello «Stato d’eccezione» che ha appassionato e diviso, nel recente passato, parecchi assi della politologia.

Nell’accezione classica di «Stato d’eccezione», oltre a una serie di provvedimenti straordinari, inconcepibili in una condizione di normalità, è contemplata (pure) la sospensione di alcuni diritti individuali, se ciò serve ad assicurare la salvezza del Paese.
Ora. Nessuno, ovviamente, si propone di congelare le conquiste democratiche, né di ledere i diritti individuali oltre una minima accettabile soglia di salvaguardia. Epperò, forzare la mano sui trattati europei in materia di finanza pubblica, può rientrare tra le priorità inevitabili dell’odierno «Stato d’eccezione».

Il che, tuttavia, non impedisce di immaginare come sarebbe stata la risposta del governo alla guerra dichiarata dal coronavirus se lo Stato italiano, nei decenni scorsi, non avesse accumulato un debito monstre, per altro incapace, diversamente dalla teoria di Reagan, di camminare da solo (atto facile in America, superpotenza militare planetaria, ma impossibile altrove). Di sicuro, la risposta di uno Stato con i conti meno disastrati si sarebbe rivelata assai più sostanziosa e poderosa. Ma, si sa, è inutile piangere sul latte versato.

Piuttosto. Il giusto e opportuno sforamento dei vincoli europei, allo scopo di fronteggiare i costi salatissimi causati dall’epidemia, non deve indurre i più a indirizzare inni e canti di lode a sua maestà il debito. Se l’Italia sta messa peggio di altre nazioni, se l’economia non assorbe la domanda di lavoro, se la nostra sanità pubblica ha dovuto patire tagli ingiusti e autolesionistici, la causa va ricercata negli effetti collaterali del debito pubblico: più interessi da pagare, meno investimenti produttivi da finanziare. Punto.

Attenzione, dunque. La lotta al debito, che alla fine si traduce in minori opportunità per i più deboli, va incanalata innanzitutto sul piano culturale. Guai a immaginare che, a furia di spendere e indebitarsi, uno Stato possa migliorare la propria condizione. Se così fosse converrebbe, o basterebbe, sottoscrivere montagne di cambiali per approdare nel regno di Bengodi. Purtroppo così non è, come dimostra la storia recente del Belpaese, che, debito dopo debito, è sceso di parecchio nell’elenco delle nazioni più prospere del globo.

Attenzione pure a voler distinguere puntigliosamente il debito privato (ritenuto una maledizione) dal debito pubblico (ritenuto dai più una benedizione). San Tommaso d’Aquino (1225-1274) bollava come fallacia compositionis il sofisma secondo cui quello che è vero/valido per il singolo non non è vero/valido per la collettività.
Il ricorso al debito pubblico è giustificato per un fine superiore, di sicuro non per sprecare denaro a scopi elettorali o clientelari. Così facendo, non solo si creano le premesse per le tasse di domani, ma si creano le premesse per la formazione di una spirale perversa: fare ancora altri debiti per pagare gli interessi. Una sorta di debito perpetuo e di insolvenza definitiva che, per giunta, compromettono i tentativi di ottenere nuovo credito.
Ecco perché i mercati, formati - non dimentichiamolo - da milioni, anzi miliardi, di persone, chiedono innanzitutto credibilità e serietà alle classi dirigenti. Ecco perché una personalità giudicata affidabile come Mario Draghi riscuote un consenso pressoché unanime, all’estero e in Italia. Tutto dipende dall’atteggiamento, innanzitutto culturale nei riguardi del Fattore Debito.
Conclusione. Plauso al governo per aver messo i primi quattrini sul piatto per cercare di rianimare un Paese debilitato dall’effetto virus. Ne serviranno molti altri. Ma la ripresa economica resterà una pia illusione se l’attrazione fatale del debito per il debito surclasserà, come è avvenuto finora, la filosofia espressa nella figura del buon padre di famiglia tratteggiata dal codice civile. Si dovrebbe fare, invece, l’opposto di quanto concepito nell’ultimo mezzo secolo, sia a livello statale sia a livello individuale e familiare.

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