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Non è ancora pandemia ma sui «social» è pandemonio

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

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Tutta colpa dei social network, purtroppo che sulla questione Coronavirus danno il peggio di sé

Martedì 25 Febbraio 2020, 14:42

Se il rischio pandemia è incerto, il rischio pandemonio è certo. Tutta colpa dei social network, purtroppo. Già i social, nel mondo, hanno dato il peggio di sé in occasione del referendum sulla Brexit che, a detta di quasi tutti gli esperti, non avrebbe avuto l’esito che ha avuto, se non fossero passate sulla Rete bufale di questo tenore: imminente invasione dell’Europa da parte di 76 milioni di turchi; opportunità, per Londra, di recuperare, dopo il divorzio da Bruxelles, i quattrini versati all’Europa; e via su questo genere di fake news. Idem Donald Trump che, nonostante i tre milioni di voti popolari in meno rispetto a Hillary Clinton, non avrebbe conquistato la Casa Bianca se non avesse scaricato sul web un tweet dopo l’altro, facendo sua la regola primaria della Rete: diventare divisivi facendosi osannare da alcuni e contestare da altri. Ovviamente, la verità è la prima vittima della Retemania e della capillare cyberdipendenza dai social, tanto che il deficit di verità rischia di provocare, per la stessa democrazia, più danni del deficit finanziario di ogni singolo Stato.
Si riferiva alla tumultuosa avanzata della Rete e all’attuale stato del giornalismo, l’altro ieri, Kerry Kennedy, figlia di Bob, assassinato nel 1968, nel lanciare, sul Corriere della Seraun accorato grido d’allarme.

«Dal 2006 a oggi in America - ha riassunto la Kennedy - abbiamo perso 1800 testate, 1300 città sono rimaste senza un solo giornale locale. Giornalisti e fotogiornalisti sono diminuiti del 48%. Senza i reporter con le risorse finanziarie per condurre le inchieste non c’è modo di fermare la corruzione, e l’affluenza nelle elezioni locali muore se non c’è stampa locale. La debolezza del quarto potere è la più grande minaccia alla nostra democrazia».

La verità è l’altra faccia della democrazia, mentre la bugia è la quintessenza di ogni dittatura, come dimostra la stessa irruzione del coronavirus, colpevolmente negata o rimossa dalle autorità cinesi all’inizio del suo manifestarsi. I social, invece, sono particolarmente efficaci nell’opera di disinformazione nelle società democratiche, innescando quel pandemonio digitale che, in casi come la «peste» piombata dalla Cina, significa panico generale, psicosi collettiva, allarmismo scriteriato, saccenteria ossessiva eccetera. Tutti trasformati in imprenditori della paura, forse anche perché, in Italia, scarseggiano gli imprenditori dell’ottimismo, che poi sarebbero gli imprenditori veri e propri, quelli che danno lavoro e producono beni.

La buonanima del professor Giovanni Sartori (1924-2017), re dei politologi internazionali, era un nostalgico dell’homo sapiens, soppiantato, nella stagione della telecrazia, dall’avvento dell’homo videns. Differenza: l’homo sapiens non vede nulla, ma capisce tutto; l’homo videns vede tutto, ma non capisce nulla. Chissà cosa avrebbe scritto, l’illustre scienziato della politica, sull’ultimo eroe (si fa per dire) del nostro tempo, ossia su quell’homo digitalis che, da mane a sera, è più «connesso» di un albero col proprio terreno. Nella migliore delle ipotesi, avrebbe detto che l’homo digitalis è la versione aggiornata dell’eterno bambino. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe osservato che l’homo digitalis rappresenta la versione odierna dell’irrazionalità, dell’irresponsabilità e dell’incoscienza. E siccome il cervello umano non ha fatto progressi per ragionare scientificamente, ma solo per prevalere nelle discussioni, la piazza dei social sembra fatta apposta per dare soddisfazione e legittimazione a quelli che usano la pancia, non il cervello nei confronti dialettici con il prossimo. Andrebbe riletto un libro (Pensieri lenti e veloci) che da sùbito si rivelò un classico, tanto da assicurare al suo autore (lo psicologo israeliano Daniel Kahneman) l’alloro del Nobel (2002) per l’economia. L’essere umano è come una pallina di ping-pong tra l’arrembante Sistema Uno (istinto e irrazionalità) e il soccombente Sistema Due ( riflessione e razionalità). Inutile dire che la Rete e i social alimentano il Sistema Uno, non già il Sistema Due, come pure sarebbe auspicabile in una democrazia che discute, riflette e decide.

Sostengono parecchi studiosi che le persone sempre connesse perdono ogni capacità di giudizio e diventano inevitabilmente incapaci di elaborare ragionamenti complessi. Non a caso, sulla Rete, predomina il gossip, insieme con tutto lo sciocchezzaio collaterale che non richiede uno sforzo cerebrale per studiare e capire, comprendere e assimilare. Troppo faticoso approfondire i problemi seri. E anche quando esplode una questione importante, il gregge del web non cambia indirizzo e percorso. Continua a banalizzare, a urlare, a sacramentare, a irridere, a odiare. Roba da trasformare lo smartphone in un’arma contundente, addirittura più letale di quelle che adoperano certi teppisti da stadio nelle imboscate contro i tifosi di altre squadre.
Bisognerebbe sgonfiare, con interventi legislativi, la bolla cognitiva o miscognitiva che dilaga e impazza su Internet. Ma non è semplice, anche se è in ballo il futuro della democrazia. Chissà se il coronavirus, tra i tanti negativi effetti collaterali già prodotti, non produrrà una presa di coscienza generale sugli effetti perversi, per la conoscenza, la trasparenza e la libertà, prodotti finora dal totalitarismo/assemblearismo digitale. Speriamo.

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