A unire la vicenda dei decreti sicurezza e quella della riforma delle intercettazioni è la salvaguardia dei diritti umani, declinati in forme e ambiti diversi. La fibrillazione in corso nelle forze di maggioranza tradisce la difficoltà e l’imbarazzo di misurarsi con temi di grande spessore e complessità e di assumere scelte che segnino una discontinuità con il passato, impedendo al contempo fratture dalle conseguenze imprevedibili all’interno di una compagine governativa a dir poco disomogenea.
La riforma delle intercettazioni è targata Orlando. Risale dunque al governo Gentiloni, politicamente un’eternità. Una normativa già adeguatamente rodata, quindi? Assolutamente no, perché vanta il record di proroghe. Varata con il d. lgs. 29 dicembre 2017, n. 2016, non è mai entrata in vigore a seguito di una serie di rinvii giustificati da risibili esigenze di completamento delle misure organizzative e di adeguamento delle apparecchiature tecniche, ma in realtà dovuti alla mancanza di audacia dell’esecutivo ed alle divergenze di opinioni nella maggioranza giallo-verde. Poche ore prima della fine dell’anno, poi, si è materializzato un decreto-legge targato Bonafede contenente “modifiche urgenti” (!) alla disciplina delle intercettazioni, che riscrive la normativa rimasta nel limbo e che deve essere convertito in legge entro il prossimo 29 febbraio. Ecco allora accesa la miccia, poiché la conversione è tutt’altro che scontata, in questi giorni di ebollizione costante del quadro politico. È di ieri la notizia che Italia Viva non intende votare un emendamento presentato da Leu concernente la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni effettuate per indagini su altri reati: i renziani hanno infatti ammonito che «chi forza spacca la maggioranza». Ma probabilmente il tutto è destinato a rientrare.
E sì, perché quel che emerge in questa vicenda è un paradigmatico esempio di non esercizio del potere legislativo, una non condivisione di scelte operate da altre maggioranze non seguita tempestivamente – come ci si aspetterebbe e come dovrebbe – da nuove norme che esprimano le posizioni sul punto delle nuove maggioranze.
Lo stesso accade in materia di immigrazione, e dei controversi decreti sicurezza. Bandiera di Matteo Salvini e della Lega, subiti obtorto collo dai Cinquestelle, avrebbero dovuto essere un’icona del cambio di passo del nuovo governo (rivitalizzati anche del movimento delle Sardine, che hanno indicato quale priorità della loro azione proprio l’abrogazione di tali provvedimenti). E invece no. Perché quando si tratta di passare dagli slogan alla loro attuazione, dai proclami ai fatti, tutto diventa difficile, per non dire impossibile. Occorre mediare. Ma non solo.
Occorre guardare con estrema attenzione al consenso, al pericolo che scelte nette e virate radicali possono avvantaggiare l’avversario e compromettere i già gracili riscontri popolari che le forze di governo raccolgono secondo i sondaggi. Lo stesso ministro degli Interni Luciana Lamorgese ha indicato come prioritario l’obiettivo di evitare che la modifica dei decreti sicurezza si trasformi in materia di scontro politico, che diventi la scintilla di un incendio non governabile. Da qui la scelta di attenersi al “minimo sindacale”, cioè a dire al contenuto delle osservazioni a suo tempo formulate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E questo nonostante le riserve e i malumori di molti esponenti della maggioranza, consapevoli di come questa sia in fondo una vittoria del Capitano e di come in tal modo si avallano visioni assai distanti da quelle che caratterizzano la tradizione progressista. Un altro ordigno, secondo taluni, sotto il tavolo del governo.
Certo si tratta di equilibri difficili, poiché – come detto – si tratta di tematiche che chiamano in causa i diritti fondamentali di ognuno (dalla riservatezza al diritto alla vita, che di tutti gli altri diritti è ovviamente la premessa), e tuttavia proprio queste considerazioni dovrebbero condurre ad un’assunzione di responsabilità, a scelte risolute e coerenti. Occorre metterci la faccia, insomma. A prevalere, invece, è la necessità e l’urgenza di puntellare un governo claudicante, in cui forze politiche distanti anni luce tra loro faticano a trovare un punto d’incontro. Se a ciò si aggiunge l’azione di disturbo della scheggia politicamente impazzita Renzi, il quadro risulta chiaro nella sua inafferrabilità.
Realpolitik? Per certi versi sì, se consideriamo il termine nella sua accezione comune di approccio talvolta cinico e opportunistico all’azione politica, di priorità degli interessi a scapito di una visione, di un’idea, di un progetto. Senza però l’autorevolezza di grandi personaggi della storia per i quali l’espressione è stata coniata. In fondo, è soltanto politica di piccolo cabotaggio.