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A tavola meglio il ragù che chattare su Facebook

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Il Papa ringrazia: incontro di Bari segno eloquente di unità dei cristiani

Papa Francesco

Il Papa ha seguito le ansie di intellettuali e politici saggi (ve n’è da qualche parte), le ha interpretate con moderna e pastorale moderazione e ha predicato

Domenica 05 Gennaio 2020, 16:25

Il Papa ha trovato il tempo e il modo di perseverare nella sua saggia e composta azione di convincimento globale fatta di armonia tra raccomandazioni pastorali e sociologiche che invitano alla prudenza nell’uso della strumentazione informatica e dell’arsenale immane dei media sostanzialmente compresi e compressi nei telefoni portatili, detti cellulari, che sono diventati protesi micidiali delle mani, ma, quel che è peggio della facoltà di comunicare con i sensi. E, spesso, del cervello.
Consentono la «connessione». Come tutti sanno, si tratta della reperibilità sempiterna e ubiqua garantita dal mezzo informatico, dal web, dai computer di ogni risma e dimensione e dai telefoni cellulari che, in realtà, sono anche dei videotelefoni, interconnessi nell’immenso universo della comunicazione. Suoni, lingue e linguaggi nel cosmo brutale dello smarrimento sociale delle identità, annegata nel marasma immane e universale del villaggio globale.
«Ognuno sta solo sul cuore della terra». Avvertiva il poeta. E aggiungeva «trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera».

Per smentirlo amaramente interviene la rassegnata resa anche dei lettori di Quasimodo all’ineluttabilità della connessione. Sul cuore della terra sta tutta l’umanità stipata nel raggio di uno squillo, nel perimetro raggiungibile da un messaggino, da una voce degli antipodi che ci fa gli auguri, ci insulta o avverte della sua esistenza in vita, dilatando quell’horror vacui che chiamiamo esistenza globale o, semplicemente, ti vuole mettere a parte di una qualsiasi inutile volgarità. Volgarità intesa anche come nozione inutile che sostituisce la forma al contenuto che svanisce nel cambio, amplificando il nulla. Ed, ecco, che il vecchio, leggendario paradosso di Mc Luhan si realizza anche fuori dalle lezioni di sociologia: il mezzo è il messaggio.
Il mezzo non officia la sua missione di «trasmettere» messaggi di ogni scrittura della vita privata e sociale, no. Il mezzo assevera sé stesso, trasmette sé stesso e la sua invadente e insostituibile potenzialità.

Dunque, non solo, come avvertiva Zygmunt Bauman, «Consumo, dunque sono», ma «sono perché sono connesso». Per far che cosa, per svolgere quale funzione umana indispensabile, è problema liquido. Viviamo nella società dei consumatori.
Anche questa, come sempre nella storia umana terrorizzata dalle escatologie fatali amministrate dalle religioni che ne attutivano il terrore indotto, prima, e che ne affideranno, finalmente, alla fede cristiana il soave messaggio della speranza, si è data il precetto obbligatorio della ricerca della felicità. Ma, oggi, la felicità, è diventata un diritto e un obbligo che necessitano della sostituzione della soddisfazione dei desideri naturali con l’entità di questa soddisfazione. Il fine ultimo dell’esistenza è questo e, per far questo, la «modernità» del progresso malinteso esige la perentoria sottomissione alla tribalità globale. Almeno della globalità che arruola le genti del primo e del secondo mondo. Gli altri mondi, l’altra gente, si affrettino a comprare un telefonino. I rapporti umani sono stati trasformati in merce, merce cibernetica. E la merce va consumata anche a costo di trasformare l’individuo in utente e, in quanto tale, sciolto da legami famigliari o sociali. La società dell’armonia dei vecchi utopisti diventa la sfera sonora che emana l’immane brusio delle chiacchiere in cui affoga l’alibi della comunicazione. Come insegnano i classici, quelli antichi e i moderni, la comunicazione che va praticata è quella che mette in comune informazioni e saperi da condividere a maggior gloria del precetto filosofico e della premura per il progresso umano, del pianeta, quello fatto di acque e terre e popoli e genti. E le antenne, pubbliche possibilmente, necessarie e pacifiche.

Di queste avremmo bisogno, al netto delle chiacchiere universali e del marasma con le sue manifestazioni di vita quotidiana, i vizi e i vezzi di micidiale futilità a cui faceva riferimento il Papa sociologo e suggeritore di un moderno galateo. Non mancano, nel suo, come dire, «motu proprio» bonario, i riferimenti a scene di vita quotidiana. Invita, se non ricordo male, a spegnere il cellulare, almeno mentre si mangia, nel convito famigliare, a ripudiare la connessione e a preferire il ragù a Instagram, la croccante frittura «di scoglio» all’invadente Facebook. E privilegiare la conversazione, la parola, i discorsi, le chiacchiere, anche, al mutismo solitario di convitati ebeti e distratti. Alle prese solo con la ciarla scema della connessione.
In tutte le epoche si è provveduto, la cultura del sociale, almeno, ha provveduto ad escogitare misure giuridiche, galatei, culture antropologiche, atte ad armonizzare le incessanti invenzioni, le nuove scoperte, i risultati della instancabile fatica della scienza e della tecnica con i modi e i costumi del vivere insieme. Non erano, non sono stati meccanismi faticosi e autoritari, comunque, non solo frutto di artifici legislativi. Era il realizzarsi di una coscienza politica che sapeva distinguere il progresso dalla civiltà in itinere. Il Papa ha seguito le ansie di intellettuali e politici saggi (ve n’è da qualche parte), le ha interpretate con moderna e pastorale moderazione e ha predicato. Non ha voluto fare il sociologo. Altrimenti avrebbe potuto buttarla in politica e raccomandare ai governi d far pagare le tasse ai capitalisti dell’intelligenza artificiale.

Gli stati moderni faticano moltissimo a farsi pagare le tasse dalle potenti multinazionali del moderno capitalismo informatico che gestisce con esosa e segretissima procedura lo sviluppo di questo affare d’oro. Mi auguro che ci riescano e che riescano pure ad imporre la serena armonia delle leggi a garanzia dello sviluppo della civiltà, anche a scapito di quel progresso esoso e cupo che sta attento solamente all’accumulo dei beni economici come fine unico dell’esistenza. Non solo collettiva, ma individuale. Non lo ha detto il Papa, lo ha scritto un sociologo: Max Weber.

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