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Francesco Giorgino
11 Novembre 2019
Di quell’entusiasmo che ha accompagnato la nascita del governo giallorosso è rimasto ben poco ormai. Il pragmatismo, con cui la politica prima o poi è chiamata a misurarsi, sta prendendo il sopravvento sull’aspirazione ad imprimere una svolta rispetto all’esperienza precedente. La consapevolezza dei molti problemi esistenti rischia di esautorare la speranza di dar vita ad un progetto, l’alleanza tra il Pd e i 5Stelle, realmente ed efficacemente alternativo rispetto a quello di destra-centro. Un progetto che la sinistra immaginava potesse essere strutturato in tempi stretti, incanalato cioè nei binari di una programmazione da sviluppare prima sul piano nazionale e poi su quello regionale. Sono passati solo due mesi da quando il secondo esecutivo a guida Conte ha giurato, ma si è già esaurita la fase della luna di miele, attesa la costanza con la quale viene alimentata la rappresentazione delle ragioni che dividono gli alleati più che di quelle che li uniscono.
Il punto è proprio questo: l’individuazione dei motivi che hanno fatto cadere all’improvviso, da una parte e dall’altra, veti e contro-veti, mettendo intorno ad un tavolo leader politici che si erano combattuti fino ad un minuto prima. A determinare questo quadro concorrono tre ordini di fattori. Il primo riguarda le motivazioni politiche per le quali questo governo è nato: recuperare il rapporto con l’Europa anche a fini economici; scongiurare in vista della legge di bilancio l’aumento dell’Iva; impedire a Salvini di governare ed alla sua coalizione di eleggere il prossimo Presidente della Repubblica. Ed infatti, se si fosse conclusa anzitempo l’attuale legislatura, la maggioranza dei voti molto probabilmente (questo rivelano un po’ tutti i sondaggisti) sarebbe andata allo schieramento di destra-centro che a quel punto, oltre a maturare il diritto/dovere di governare, avrebbe potuto fare la parte del leone rispetto alla partita da giocare sul e con il Quirinale. Il secondo ordine di fattori risiede nella ontologica diversità delle forze che compongono l’attuale maggioranza e nella loro ostinazione fenomenologica a promuovere all’esterno le specificità delle proprie identità politiche secondo una dinamica intrisa di frammentazioni e particolarismi. Situazione quest’ultima enfatizzata dalla concomitanza di elezioni regionali poste direttamente al centro dei riflettori perché diventassero terreno utile alla costruzione degli equilibri futuri persino attraverso la derubricazione delle “strategie” al rango di “esperimenti”.
La difficoltà a realizzare un progetto politico impatta, almeno in termini di percezione, sull’efficacia dell’azione programmatica. E ciò al netto dell’impegno del premier, intento a costruire un personale percorso politico-istituzionale, ma anche a fare lo slalom tra rivendicazioni, richieste, esigenze di discontinuità e tattiche di consolidamento. La vicenda di Arcelor Mittal, sulla quale Conte ci sta mettendo la faccia, anche con una certa dose di coraggio, è emblematica. Le troppe spinte centrifughe (piuttosto che centripete) svelano, altresì, la tendenza a conservare rendite di posizione. Tendenza posta in essere un po’ da tutti i leader politici. E qui veniamo al terzo ordine di fattori. Luigi Di Maio (questo non va mai dimenticato) è il capo politico di un Movimento che, sebbene fin dalle elezioni europee attraversi una fase molto difficile dal punto di vista del consenso, in Parlamento dispone della maggioranza relativa. Finché la legislatura durerà, sarà lui a tenere in mano le redini del gioco, consapevole com’è che anche gli oppositori interni al Movimento devono fare i conti con la probabilità della non ricandidatura o della mancata rielezione. Nicola Zingaretti, se da un lato potrebbe trarre giovamento da elezioni anticipate anche per evitare contraccolpi negativi dovuti al logoramento determinato dall’azione di un governo assai litigioso, dall’altro deve fare i conti con l’incognita più grande: il ruolo del Partito Democratico in un Parlamento a maggioranza destra-centro.
Considerata come molto improbabile una vittoria straordinaria dei Dem in caso di elezioni anticipate, il suo problema resta quello di evitare l’isolamento e, contemporaneamente, di assumersi la responsabilità di una decisione che potrebbe portare il Pd dalla maggioranza all’opposizione. Quali assetti si possono determinare senza Cinque Stelle e anche senza Italia Viva di Renzi, che intanto si muove per costruire la sua rete di partito di centro-sinistra? Sia se si intraprendesse la strada del proporzionale, sia se si ripristinasse la logica del maggioritario in chiave bipolare, rimarrebbe per Zingaretti (e non solo per lui in verità) il problema delle alleanze almeno con il partito o con i partiti meno distanti dalle proprie posizioni e dalla propria cultura politica.
Sul fronte del destra-centro lo scenario è di tutt’altra natura. Vento in poppa per Matteo Salvini che continua a crescere nei sondaggi, che trae giovamento (altro caso di rendita di posizione) da questa sua condizione di leader dell’opposizione e che si muove con l’intento di vincere anche in Emilia Romagna per consolidare ulteriormente il disegno di costruzione della propria premiership. Forte anche dei brillanti risultati conseguiti da Giorgia Meloni, Salvini è alle prese con la necessità di imprimere una svolta più moderata al suo agire politico e comunicativo. Toni più pacati, gesti più ponderati, dialogo con Bruxelles secondo una trama che sembra voler far dimenticare in fretta l’errore dei “pieni poteri”. Il tempo gioca anche a suo favore, visto che non sta perdendo voti. Anzi.
Il governo giallorosso, dunque, deve considerare quello che accade all’interno della coalizione, ma anche quello che matura al suo esterno. È davanti ad un bivio e deve operare una scelta. Vivere o sopravvivere? Lo capiremo solo nelle prossime settimane. Intanto accontentiamoci di riflettere sul valore di questo quesito anche perché, come sostiene lo scrittore giapponese Murakami, una domanda vera a volte è meglio di una risposta giusta.
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