Possono piacere o meno. Possono registrare simpatia o suscitare ostilità, talvolta anche preconcetta. Di certo nei loro confronti non possono prevalere indifferenza e sottovalutazione. A distanza di dieci anni dalla sua costituzione a Milano ad opera di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, si può sostenere che quella del Movimento Cinque Stelle sia stata la novità politica più significativa dall’inizio del secondo millennio. Uno sguardo comparativo incoraggia il ricorso a questa premessa spendibile anche come base per tutta una serie di argomentazioni. Lungi dal voler assolvere ad una funzione celebrativa di un anniversario pur tondo, si tratta di sviluppare analisi utili a verificare cosa sia rimasto della fase delle origini, quando consistente era l’impatto destrutturante di questa iniziativa sul sistema partitico italiano, e cosa invece sia cambiato. E ciò, a partire dalle modalità di rappresentazione dei temi più capaci di intercettare gran parte delle istanze maturate all’interno del tessuto sociale secondo una logica bottom-up e non più top-down.
L’utopia iniziale è diventata realtà. Già da tempo. Una realtà che abita istituzioni nazionali e territoriali, ma che va reinterpretata. Sono mutati gli scenari politici e si è ridotta quella spinta propulsiva a considerare lo streaming elemento di trasparenza, il web mezzo indispensabile per superare le distorsioni della democrazia rappresentativa, i social network espressione del sentire comune e della volontà generale. Il Movimento che voleva cambiare la politica e gli altri partiti (e li ha cambiati) si sta misurando con una delle sfide più impegnative: cambiare sé stesso. Si sta ponendo il problema di come “vivere” e non solo di come “sopravvivere” di fronte alla contingenza politica fatta di accadimenti non sempre governabili direttamente. Si sta ponendo il problema di come continuare ad essere formazione post-ideologica senza essere anche “post-idee”, di come evitare certi errori che hanno dimezzato i voti in un anno e di come migliorare le proprie conoscenze e competenze.
Sono almeno due gli aspetti da considerare. Il primo è relativo alla narrazione pubblica del Movimento e quindi alla sua capacità di segnalazione delle priorità per cittadini, media e politica. Ci si chiede quali siano gli argomenti che i Cinque Stelle riusciranno a collocare al centro del discorso pubblico, a partire dal rispetto del frame del “cambiamento” che ha rappresentato per moltissimi elettori un ancoraggio culturale e relazionale, ma anche uno strumento di implementazione, almeno a livello motivazionale, della partecipazione dei cittadini e del coinvolgimento dell’elettorato attivo nei processi deliberativi. Il cambiamento è stato finora l’acquario dentro il quale nuotare alla ricerca di un consenso dapprima abilitante e poi confermante. Il contratto di governo con la Lega è stato il risultato quasi naturale di questo paradigma che ha influenzato tutto il politelling degli ultimi anni.
Ora il contesto è cambiato. Dopo l’enfasi riservata alla geometria orizzontale ed egualitaria, riassumibile con un slogan tanto efficace dal punto di vista comunicativo quanto difficile da realizzarsi nel concreto come “uno vale uno”, dopo la valorizzazione della questione morale eretta a codice genetico, dopo le strategie anti-establishment e anti-casta (come la riforma della riduzione del numero dei parlamentari che domani dovrebbe essere approvata in via definitiva), dopo le battaglie contro le disuguaglianze sociali con il reddito di cittadinanza issato come una bandiera della politica economica, è utile sapere quali saranno i topic sui quali costruire l’interlocuzione del futuro con elettori che hanno abituato i vertici del Movimento alle insidie della volatilità e della liquidità. Non è questione secondaria, perché i cittadini sono certamente attratti dal carisma dei leader, ma ancor di più dalla rilevanza dei programmi.
Far politica con i Cinque Stelle ha comportato, almeno fino a poco fa, l’adesione ad un modus operandi che si è giustificato e si giustifica anzitutto per la sua capacità di innovare, destabilizzando e creando, ma anche combinando e trasformando. La metamorfosi da “movimento antisistema” a partito, anche se non necessariamente “partito di sistema”, si iscrive d’ufficio all’interno di questa consapevolezza diffusa. Una consapevolezza che coincide con un agire politico e comunicativo che gradualmente ha abbandonato la contrapposizione frontale ed il radicalismo per intraprendere la strada della moderazione e della compatibilità con gli altri, neutralizzando il rischio dell’isolamento. Vero è che la diversità continua ad essere un valore aggiunto per i Cinque Stelle, almeno a fini di percezione esterna, ma essa si scompone e ricompone all’interno di un quadro condizionato giocoforza anche dalle convenienze, oltre che dai convincimenti.
La seconda questione riguarda la gestione dei processi di leadership. Lo Statuto del dicembre 2017 ha consentito a Di Maio di diventare il “capo politico” del Movimento, leader che resta in carica cinque anni e che è sì rieleggibile, ma per un massimo di due mandati consecutivi. Grillo che indossa i panni del Garante, Casaleggio junior che controlla la piattaforma Rousseau, l’Assemblea degli iscritti, il Comitato di garanzia e il Collegio dei probiviri a completare l’assetto organizzativo. Una delle critiche rivolte a Di Maio è stata quella di aver accumulato in questi anni troppo incarichi. Un’altra è quella di essere “troppo capo”. Per questi motivi qualcuno ha invocato la costituzione di una sorta di cabina di regia con l’intento di favorire la collegialità delle decisioni più importanti. Non stupiscono richieste del genere, anche se maturate all’interno di un soggetto politico nel quale non avrebbero dovuto formarsi correnti e gruppi di pressione per acquisire più visibilità e potere.
Pur sul presupposto della necessità di distinguersi dagli altri partiti (almeno per apparire diversi da essi), è immaginabile la gestione di un Movimento, che alle ultime elezioni politiche ha ottenuto la maggioranza relativa, con una leadership che qualcuno vorrebbe debole e precaria, oltretutto in presenza di un quadro frammentato? La storia induce a dare una risposta di segno negativo a questo interrogativo. Altro tema è quello della necessità dell’affiancamento al capo politico di altre figure che Di Maio chiama i “facilitatori”. E ciò unitamente alla nomina di referenti territoriali in grado di rendere più fluidi i meccanismi di comunicazione interna, oltre quelli già collaudati della comunicazione esterna e del marketing politico.
Se si mettono una accanto all’altra le parole d’ordine del passato con quelle del presente, i modelli organizzativi di ieri con quelli di oggi, le regole della fase iniziale con quelle che si stanno stagliando all’orizzonte, anche solo come conseguenza del primato di norme consuetudinarie su prescrizioni formali, appare evidente che tante cose sono cambiate. Schema di gioco quasi inevitabile, visto che alcuni dei partecipanti ai primi meet-up hanno cominciato a ricoprire incarichi di grande responsabilità istituzionale, sono diventati ministri, vice ministri, sottosegretari, presidenti di commissioni parlamentari, sindaci, assessori. Oggi il Movimento, anche per la centralità acquisita, per il ruolo nazionale ed internazionale svolto dal premier Conte, per il profilo moderato assunto dallo stesso Di Maio, ha legittimato qualcuno persino a paragoni con una certa Dc. Governare l’oscillazione continua tra (recente) passato, presente e futuro è un obbligo se si vuole comprendere l’identità che avrà un Movimento con 112 mila iscritti e 10 milioni di votanti, che ha portato davanti ai probiviri 274 esponenti e ha espulso già 100 dissidenti.
Un Movimento che opera in un contesto nel quale solo una forza politica delle sei presenti in Parlamento conserva ancora l’espressione “partito”. Per questo è poco sostenibile l’approccio, quasi tutto ideologico, secondo il quale il Movimento se è alleato con la Lega è il male, mentre se governa con altre forze politiche diventa il bene. Serve un atteggiamento più neutro e rispettoso della carica innovativa portata da questo soggetto politico. Più dei pregiudizi e dello strabismo analitico, più delle Carte di dissenso (come quella Firenze) contano progetti, idee e soluzioni concrete ai problemi dei cittadini. La politica si fa per questo.