Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti, le cui frequenti sortite certo non passano inosservate, ha affermato durante una trasmissione radiofonica di credere in una scuola laica, che permetta a tutte le culture di esprimersi senza esporre un simbolo in particolare. Ergo, via il crocifisso dalle aule scolastiche e – è questo l’elemento di assoluta novità – via anche la foto del Presidente della Repubblica.
La polemica sul crocifisso nelle aule, come molti ricorderanno, è annosa e si ripropone ciclicamente. L’obbligo risale a un regio decreto di quasi un secolo fa che disciplina gli elementi di arredo delle aule scolastiche. La sua origine, tuttavia, è nella c.d. legge Casati (1859) che riconosceva accanto alle scuole pubbliche le scuole private. Tutt’altro, dunque, che un esempio di integralismo.
Ieri, intanto, si è appreso – sempre in materia di tolleranza e di pluralismo religiosi – che la curia di Bologna ha deciso di proporre, in occasione della festa di San Petronio, dei tortellini senza carne di maiale. Sembra quasi di assistere ad una curiosa trasmutazione della Repubblica parlamentare in Repubblica alimentare. Scherzi a parte, si può condividere o meno un credo religioso che incide da due millenni sulla nostra storia e il simbolo che lo rappresenta, si può apprezzare il nostro Presidente e l’immagine che lo rappresenta, ma spingendosi troppo oltre in questa direzione si rischia di oscurare l’identità di un popolo (già peraltro alquanto in crisi e assai impalpabile). Legittimare l’immagine di Mattarella non vuol dire naturalmente essere un suo fan, né tantomeno un nostalgico democristiano. Più semplicemente, significa riconoscere il suo ruolo (scolpito nella Costituzione) e – in questo caso – far sì che, seppur in maniera simbolica, chi si affaccia alla vita, ne diventi consapevole.
Quanto al crocifisso, appenderlo in un’aula scolastica non significa ovviamente obbligare tutti ad essere cristiani, ma soltanto lasciare una traccia di quella che è stata una visione del mondo che ha contrassegnato – con le sue luci e le sue ombre – la vita della nostra Penisola. E poi, spetta a chi ricopre il delicato ruolo di insegnante spiegare agli alunni il valore di tali simboli e il contesto in cui sono nati. Certo non imporre una (fantomatica) religione unica di Stato.
Per inciso, uno dei protagonisti della querelle giudiziaria sviluppatasi in proposito, Adel Smith, ha definito il crocifisso «un cadavere in miniatura appeso a due legnetti». Certo non il massimo di rispetto e tolleranza. Mentre la CEDU nel 2011, ribaltando una precedente opinione, ha affermato che non vi sono elementi tali da dimostrare l’eventuale influenza dell’esposizione del crocifisso nelle aule sugli scolari.
Ma torniamo in Italia.
Il tema è divisivo, senza dubbio.
E lo Stato italiano è laico per Costituzione (artt. 7 e 8). Il che non confligge, però, con l’esposizione di un simbolo, appartenente alla civiltà ed alla cultura cristiana, nella sua dimensione storica, espressione di un valore universale indipendente da ogni specifica confessione religiosa, come affermato dal Consiglio di Stato nel 1988 e ribadito nel 2006.
Un simbolo, quindi, di tutti.
Ironicamente si potrebbe dire che il mantra scolastico del neoministro sia “merendine a colazione, crocifisso in frigo”. È sicuramente apprezzabile l’intento di offrire a chi cresce una visione globale della società contemporanea, simboleggiata da una cartina del mondo con dei richiami alla Costituzione. Ma questo non è da ritenersi in contrasto con la presenza di altri simboli, legati alla nostra storia e alle nostre fondamenta istituzionali. Che la Terra non finisca a Mentone o a Ventimiglia, del resto, le nuove generazioni native digitali – abituate a spostarsi in maniera vorticosa e non solo virtualmente da una parte all’altra del globo – lo sanno benissimo, un po’ meno conoscono – non per colpa loro, ma per una politica scolastica dissennata che ha progressivamente ridotto la rilevanza dello studio della storia, privilegiando l’hic et nunc e le c.d. materie tecniche e professionalizzanti – il nostro passato, le nostre tradizioni e, dunque, la nostra identità. Lo stesso dicasi per le previsioni della nostra Carta fondamentale che andrebbero assimilate non soltanto sotto forma di semplici “richiami”.
Laicità e tradizione non sono in contrasto tra loro, né fare riferimento al nostro passato significa essere passatisti. Al contrario. Significa recuperare l’identità perduta, che vuol dire anche coesione: elemento necessario per rapportarsi con gli altri popoli e nazioni senza soccombere. La storia siamo noi (1985), canta un laicissimo Francesco De Gregori. Conoscerla, dunque, aiuta a conoscerci meglio. E se un simbolo può aiutare a richiamarla alla memoria, ben venga.