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Quanti rivali interni nella politica del Belpaese

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Quanti rivali interni nella politica del Belpaese

L’impressione più diffusa è che il malessere del nostro sistema politico, a cominciare dalla plateale rottura di una coalizione, vada cercato nelle faide intestine di ogni singolo partito

Martedì 27 Agosto 2019, 16:15

Se il potere, come osservava il caustico Francesco Cossiga (1928-2010) nel suo libro testamento, è al tempo stesso il mezzo e il fine dell’azione politica, la figura del rivale, per un leader, è assai più insidiosa della sagoma dell’avversario. Solo la Democrazia Cristiana, nelle cui stanze e nei cui corridoi il veleno tra le correnti scorreva ugualmente come un fiume carsico, riusciva a disinnescare la miccia della deflagrazione interna grazie a una linea di condotta - teorizzata e sublimata da Aldo Moro (1916-1978) -, tesa a non mortificare mai, anche dopo le battaglie domestiche più sanguinose, i gruppi e gli uomini risultati sconfitti.
Ma la Dc era la Dc. Solo nella Dc, infatti, poteva capitare, come è stato ricordato in questi giorni, che Moro (1976) rinunciasse a Palazzo Chigi a favore del suo «nemico in casa» Giulio Andreotti (1919-2013).

Moro si sacrificava pur di non spaccare lo scudo crociato di fronte al primo atto di collaborazione (governo della non sfiducia) con il Pci di Enrico Berlinguer (1922-1984).
Altri tempi. Moro, e non solo lui, aveva letto i classici, tra cui le opere della grande politologa e filosofa Hannah Arendt (1906-1975), profonda studiosa della democrazia e delle sue degenerazioni. «Il potere - insegna l’autrice de Le origini del totalitarismo - non è mai appannaggio esclusivo di un solo individuo, ma appartiene sempre a un gruppo: si conserva solo se questo gruppo resta unito e se gli interessi personali e gli obiettivi politici non divergono».

Ora. Sono uniti i partiti, i gruppi politici rappresentati sulla scena parlamentare italiana? Professano sul serio interessi convergenti? Neppure il militante più cieco e fanatico sosterrebbe una tesi così ardita. Anzi, l’impressione più diffusa e sempre più fondata è che il malessere del nostro sistema politico, a cominciare dalla plateale rottura di una coalizione, vada cercato nelle faide intestine di ogni singolo partito piuttosto che tra gli sgambetti tra gli alleati al governo.
Soffermiamoci sui principali protagonisti di questo agosto infuocato: Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti.
A tre settimane dallo strappo del Capitano leghista, il motivo vero di questa rottura resta più inesplicabile di un rompicapo enigmistico. Si è detto e letto di tutto, ma forse si è trascurato un aspetto che in una costruzione gerarchico-competiviva com’è un partito politico, può rappresentare una convincente chiave interpretativa: il rapporto tra il numero uno e il numero due. Nel caso in specie: quello tra Salvini e Giancarlo Giorgetti.

Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, non ha mai fatto il tifoso ultrà del tandem gialloverde. Ha sempre manifestato le proprie perplessità e quando, nel maggio scorso, la Lega ha stravinto le europee, Giorgetti avrebbe voluto che Salvini cogliesse l’occasione per salutare Di Maio e chiedere le elezioni politiche anticipate. In quella circostanza, con il Carroccio salito in cielo e con il Movimento caduto a terra, sarebbe stato difficile per chiunque (compreso il Quirinale) liquidare come astrusa e pretestuosa la pretesa elettorale salviniana, e probabilmente il numero uno leghista sarebbe stato accontentato.

Ma Salvini non ha voluto seguire sùbito il suggerimento del numero due effettivo della Lega (il numero due formale sembra il 33enne Andrea Crippa nominato vicesegretario un paio di mesi fa, una promozione che a Giorgetti non deve aver fatto particolarmente piacere). Salvini ha raccolto il consiglio di Giorgetti parecchio tempo dopo, quando quest’ultimo aveva già cambiato parere, ritenendo rischiosa, e cronologicamente sbagliata, l’idea di aprire la crisi in estate per sciogliere la legislatura.
Non vogliamo cadere nella trappola di una lettura psicanalitica, ma, probabilmente anche la mai smentita interlocuzione diretta tra Sergio Mattarella e Giorgetti potrebbe aver «ingelosito» Salvini, e così pure la fitta rete di relazioni importanti del suo luogotenente. Insomma, spesso dietro decisioni straordinarie ed epocali possono nascondersi motivazioni ordinarie e umane.
Qualcosa di simile sta accadendo pure nel M5S, dove l’astro di Di Maio deve competere, in luminosità, con le stelle di Giuseppe Conte, Roberto Fico e Alessandro Di Battista.

Conte, con il suo discorso in Aula, si è imposto da giorni come l’anti-Salvini. Il che gli assicura una presa e una rendita identitaria mica da niente. Fico rappresenta l’anima più anti-leghista dei pentastellati, è la terza carica dello Stato, può entrare a sorpresa, e quando vuole, nel campo governativo. Di Battista è l’uomo più osannato nei raduni post-grillini: può risultare ingombrante come ministro, ma anche, o soprattutto, fuori dall’esecutivo. In ogni caso, le mosse di Di Maio, le sue risposte alle offerte di Zingaretti e di Salvini devono tener conto delle partite simultanee che giocano i suoi tre rivali interni e, di conseguenza, delle prospettive che si aprirebbero o si chiuderebbero per lui. Del resto, il «contratto» con Salvini fu la soluzione intelligente che permise a Di Maio di quadrare il cerchio tra le varie anime del Movimento. Obiettivamente, il capo politico del M5S non scatena, oggi, l’invidia generale, a meno che sia così bravo da ritrovarsi a Palazzo Chigi dopo aver seminato, con una serpentina degna del miglior Bruno Conti, gli ostacoli esterni e interni.

Anche Zingaretti sta trascorrendo un agosto complicato, visto che, fosse dipeso da lui, si sarebbe già dovuto allertare l’elettorato, fissando il voto in ottobre. Ma i giochi dentro il Pd, con Renzi a caccia di rivincite, portano il segretario ad aprire le antenne più tra i suoi che tra gli altri. Ecco perché, a prescindere dalla soluzione (anche se il Conte-due va verso il traguardo), che, tra Pd e M5S, verrà trovata o scartata nelle prossime ore, ci attende un autunno più caldo dell’estate.

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